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Discussione: formula magica?

  1. #1

    formula magica?

    sperando di farvi cosa gradita (sempre se non l'avete gia' letto) vi allego link di un interessante servizio pubblicato su Diario di qualche settimana fa su google e sulle modalita' di calcolo del PR
    voi che ne dite?
    ciao a tutti
    francesco

    http://www.diario.it/index.php?page=cn04052135
    frank_web

  2. #2
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    Chi mi fa il copia incolla?? non posso aprire siti?

    grazie!
    mmmmmmmmmmmmmmappinnnn...

  3. #3
    Key te lo volevo incollare in pvt ma è troppo lungo... 36000 caratteri contro i 4000 permessi.

    Semi mandi la tua mail in privato te lo mando la.

    Ciao

    Sergio
    D'accordo d'accordo, la scuola può anche andare bene.
    Ma chi insegnerà a questi ragazzi le vie della Danza?
    -http://privatewww.essex.ac.uk/~patri...eetAnDandy.htm

    -Chinese Medicine Blog

  4. #4
    Occorre precisare che la formula indicata per il calcolo del PR è vecchia ed è stata modificata da Google, anche se a spanne rimane valida.

  5. #5
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    Grazie lo stesso Sergiof4....@ non posso

    mmmmmmmmmmmmmmappinnnn...

  6. #6
    Era un secolo fa. Internet balbettava. Il lunedì di Pasqua del 1990, a 55 anni, moriva Bartolo Pieggi, uno dei più grandi e ossessivi archivisti che il Novecento abbia ospitato. Era nato ad Asmara nel 1935 da una famiglia pugliese, mangiava di tutto, anche le parole. Forse per questo dedicò l’esistenza all’Archivio. Lo si poteva incontrare da Algani, la più fornita edicola di Milano, in Galleria Vittorio Emanuele ogni mattina, pioggia, neve, bel tempo. Ogni giorno Bartolo comprava di tasca propria 25 quotidiani, di cui solo 8 italiani. Ogni testata, compresa la Pravda perché leggeva il russo, compreso un quotidiano cecoslovacco perché trovava chi lo leggeva, veniva acquistata in duplice copia. La riproducibilità tecnica si limitava allora alla carta carbone. Trascorreva le mattine in redazione a leggere e a ritagliare, cooptando i più giovani, e nel pomeriggio andava via presto. Verso «Verlag». Verlag («casa editrice», in tedesco) era un appartamento non riscaldato a due passi dalla redazione della Domenica del Corriere, che Bartolo aveva affittato a sue spese per dare una casa ai suoi ritagli. Grandi scaffali industriali che ci si passava a malapena, due stufette elettriche e un esercito di buste gialle, in ordine alfabetico, dove riposavano fiumi di notizie invecchiate. L’ultimo censimento aveva fotografato l’esistenza di 30 mila lemmi. C’è chi sostiene che mettere le mani là dentro fosse un inferno, se non eri Bartolo. Per altri i criteri di archiviazione erano aristotelici. I primi raccontano che se cercavi qualcosa su Proust dovevi cercare sotto la «C» di Culi. I secondi assicurano che bisognava guardare la «S» di Scrittori e la «O» del sottolemma Omosessuali.
    La voce si era sparsa. Alberto Ronchey, allora direttore del Corriere e discreto «ritaglista» (ma solo di politica estera) intavolò una trattativa per l’acquisto, ma poi Bartolo Pieggi se ne andò da questo mondo e le tracce del suo archivio si persero nel nulla. «Provai a interessarmene, ma Bartolo era scapolo, pensi che passava le serate a descrivere la televisione alla madre cieca. Mi dissero che se ne stava occupando una sua amica di Monza», ricorda oggi Luigi Bazzoli, allora collega di Pieggi. «L’ipotesi più probabile è che l’archivio sia sepolto in qualche biblioteca. In pochi anni, con l’arrivo di Internet, il valore del Verlag precipitò». Era un altro secolo. Era il lunedì di Pasqua del 1990. Quante cose possono svanire in 15 anni? Provi con Google, e il cervello di Dio risponde, laconico: «La ricerca di – “bartolo+pieggi” – non ha prodotto risultati in nessun documento».
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  7. #7
    EULERO A WALL STREET. Marzo 1995, cinque anni dopo. Larry Page e Sergey Brin, 22 anni il primo, 21 il secondo, si incontrano all’Università di Stanford. Fino ad allora la più grande impresa di Larry era stata costruire una stampante con il Lego. Brin, di origine russa, eccelleva nel trapezio. Oggi stanno per portare alla Borsa di New York la loro creatura: Google, il più famoso motore di ricerca su Internet. Con un tocco di goliardia, hanno annunciato di voler raccogliere la cifra indicativa di 2.718.281.828 dollari, che richiama il famoso numero di Eulero (la base naturale dei logaritmi che affascina da secoli i matematici). Anche il nome ha a che fare con la matematica: «googol» è il nome che Milton Sirotta, nipote del matematico americano Edward Kasner, diede alla cifra 10 elevata alla centesima potenza, cioè un numerone che rende bene le dimensioni esplosive di Internet. Google, fondata nel 1998 in California, con sede a Mountain View, perdeva 6 milioni di dollari nel 1999 e ne ha guadagnati 105 nel 2003. Il 95 per cento degli introiti deriva dalla pubblicità, proprio la voce che è mancata a gran parte delle aziende della new economy soffocate nella culla. Ma quella di Google è ben mirata: cerchi «alberghi a Roma» e ti appare in un link (segnalato correttamente come pubblicità) a un sito che elenca alberghi. In più è poco costosa, alla portata di una sterminata platea di aziende medie e piccole di tutto il mondo.
    Nella richiesta di quotazione alla Sec, l’organismo di controllo di Wall Street, Larry Page ripete fino alla noia che a loro non importerà nulla dei risultati trimestrali (incubo dei top manager americani, ostaggi delle fluttuazioni dei titoli). E che, come da tradizione aziendale, i 1.900 dipendenti-azionisti saranno «obbligati» a investire il 20 per cento del loro tempo nel fantasticare a ruota libera su nuove iniziative. Negli Stati Uniti c’è chi pensa che, con la quotazione, Google possa arrivare a valere 20-25 miliardi di dollari, come Lockheed o Nike. Altri pensano sia un passo verso la tomba. Alla partita sono molto interessati gli azionisti attuali, tra cui figurano Henry Kissinger, Arnold Schwarzenegger, il campione di golf Tiger Woods e l’asso dell’Nba Shaquille O’Neal.
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  8. #8
    IL FALÒ DELLA POPOLARITÀ. I tempi di Bartolo Pieggi sono tramontati e Google comincia ad assomigliare al «cervello del mondo», un passaggio quasi obbligato per la gran massa dei navigatori a caccia di informazioni. Ma come ragiona questo cervello? Date le parole chiave che noi scriviamo nell’apposita finestrella, con quale criterio Lui ci restituisce certe pagine web, e con quale criterio le ordina? Perché una certa pagina ci appare nella prima schermata e un’altra nella schermata 326, che non leggeremo mai?
    Innanzitutto bisogna sapere che la nostra ricerca non scandaglia la rete Internet, ma l’archivio contenuto nei computer di Google, dove sono raccolte e indicizzate circa 2 miliardi di pagine, secondo l’azienda. Comunque meno di un decimo di tutte quelle presenti sul Web. Tutte le altre, con Google non le troveremo mai. Quali pagine finiscono negli archivi? Quelle scovate automaticamente da programmi (crawler) che partono da pagine base (per esempio Yahoo!, Bbc, Cnn…) e «strisciano» nella rete seguendo a cascata tutti i link che trovano.
    Lo spirito di Google sta nel suo algoritmo, cioè nella formula matematica grazie alla quale il motore stabilisce che una certa pagina (una singola pagina, non l’intero sito) ha un punteggio più alto e perciò merita di esserci segnalata prima di un’altra. Il punteggio si chiama PageRank ed è sostanzialmente un misuratore matematico della popolarità. Date le parole chiave immesse dal navigatore, la mia pagina web è importante se è segnalata da moltre altre pagine. È più importante se le pagine che mi segnalano hanno un punteggio alto (cioè se a loro volta sono popolari). È più importante se il link che mi arriva dalla pagina di qualcun altro non annega in mezzo a decine o centinaia di link verso altre pagine.

    IL FATTORE NOIA. Come si fa a tradurre in numeri la popolarità? Il colpo di genio di Page e Brin sta proprio in questo. L’algoritmo di Google è cambiato e si è affinato nel tempo, sono stati aggiunti nuovi criteri di valutazione delle pagine, e parte di queste novità rimangono segrete. Ma lo spirito resta quello illustrato dai suoi inventori nella relazione presentatata nel 1998 (www-db.stanford.edu/~backrub/google.html). Questo algoritmo vale miliardi di dollari (poi dicono che la matematica nella vita non serve) e impone una gerarchia al mondo. Perciò vale la pena di vedere come è fatto e che cosa vuol dire.
    Su una qualunque pagina che chiamiamo «A», il PageRank (PR, cioè il punteggio) è calcolato così:

    PR(A) = (1-d) + d (PR(T1)/C(T1) + ... + PR(Tn)/C(Tn))

    «d» è un numero fisso, stabilito a capocchia tra 0 e 1, di cui parleremo dopo. PR(T1) è il punteggio della prima pagina che ha un link verso A. Viene diviso per C(T1), cioè per il numero totale di link che escono dalla pagina T1. In pratica, la popolarità della mia pagina A aumenta se T1, che mi linka, è a sua volta popolare. Ma diminuisce se T1 elenca tantissimi altri link tra i quali il mio rischia di «affogare». La stessa procedura si ripete per tutte le pagine che hanno un link verso A, fino all’ennesima (Tn), sommando tutti i risultati.
    Il numerino «d» non cambia le carte in tavola, ma siccome c’è va spiegato. Ed è qualcosa che ha a che fare con la noia di navigare. L’algoritmo di Google, infatti, rappresenta il comportamento di un frenetico navigatore che salta da una pagina all’altra cliccando del tutto a caso tra i link: rappresenta cioè la probabilità che quel navigatore capiti su una certa pagina. Se andasse avanti in modo indefinito, non avremmo bisogno di «d». Invece il navigatore si stufa, quindi Page e Brin introducono questo numerino, un fattore di riduzione che abbassa tutti i PageRank. Lo fissano arbitrariamente a 0,85. «d» garantisce inoltre che tutte la pagine, anche quelle non segnalate da nessuno, abbiano un piccolissimo PageRank e quindi saltino fuori nella ricerca, magari alla famosa schermata 326. Infatti il PageRank di un sito ignorato da tutti è: (1-0.85)+0.85X0=1-0,85=0,15.
    IL TERZO UOMO: ITALIANO. «Il fatto che uno sia popolare non significa che sia un galantuomo». L’obiezione è accompagnata da un sogghigno che rimanda alla politica italiana. Chi la fa ha voce in capitolo perché è l’unico italiano citato da Page e Brin tra i contributi scientifici che hanno aperto la strada a Google. Si chiama Massimo Marchiori, ha 34 anni, insegna materie informatiche all’Università di Venezia e fa il ricercatore al Mit di Boston, dove collabora con Tim Berners-Lee, l’inventore del Web. Ha conosciuto Larry Page nell’aprile del 1997, alla Sesta conferenza internazionale sul World Wide Web di Santa Clara (California), e lo ricorda come un tipo «umile, molto alla mano, con una mentalità più imprenditoriale rispetto a Sergey Brin». I motori di ricerca dell’epoca, ricorda Marchiori, «davano un punteggio a ogni singola pagina e basta. Io ne presentai un nuovo, Hypersearch, che andava a vedere anche la relazione della pagina con il resto del Web». L’idea vincente di Google è quindi un misconosciuto made in Italy. «Solo che io la pensavo in un altro modo rispetto a Page e Brin. Nella loro impostazione, se un sito di auto è segnalato da un sito di auto o di scooter il punteggio non cambia. Ma il navigatore sta cercando auto, non scooter. Il mio progetto teneva conto di questo, privilegiava la qualità dell’informazione che posso raggiungere da un sito, non la sua popolarità».
    Se oggi Google non è italiano è perché i due studenti di Stanford hanno ben miscelato il genio matematico con quello imprenditoriale: «Con l’algoritmo giusto, la loro strada consentiva ricerche più veloci», riprende Marchiori. «In più, in un’epoca in cui Yahoo! e gli altri costruivano grandi portali pieni di roba, loro hanno avuto l’intuizione di fare un sito semplice, con il motore e nient’altro. Ricordiamoci che a quell’epoca le connessioni erano lente e le pagine web si aprivano a fatica. Google invece si apriva subito e rispondeva rapidamente alle ricerche. Molti navigatori cominciarono a preferirlo anche se il suo archivio, agli inzi, era molto più piccolo di quello dei concorrenti».
    Anche grazie a queste intuizioni Google è diventato il «cervello del mondo», una fonte di informazione quasi monopolistica per milioni di navigatori. Entrare nei suoi meccanismi, quindi, è qualcosa che ha a che fare con la democrazia. «Google presenta lo stesso problema della tv: se hai qualcosa di interessante da dire ma non hai il “canale”, la tua informazione vale zero», spiega Marchiori. «Google decide lo “share” di un programma, cioè di un sito. In fondo si basa sulla raccomandazione. Più un sito è raccomandato da altri, più è visibile, e questo agli albori del Web andava anche bene. Ma oggi è diventata fondamentale la pubblicità, cioè la raccomandazione a pagamento. La prospettiva cambia completamente». E qui si innesta una spirale viziosa: i «voti» a pagamento spingono in alto certe pagine, che così diventano popolari e ottengono anche i voti «democratici» dei siti disinteressati, e l’effetto spinta si moltiplica. «Infatti gli ultimi studi sui motori di ricerca dicono che Google sta peggiorando», conclude Massimo Marchiori.
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  9. #9
    LIBERISTA-DEMOCRATICO. A Google non importa nulla di essere «buono», gli basta essere «utile». È «democratico in senso liberista», ragiona Gianni Degli Antoni, docente alla Statale di Milano, accademico non convenzionale, da molti anni voce di riferimento dell’informatica italiana. «Ha aperto spazi pubblicitari ad aziende che avevano quattro soldi e non trovavano altri canali per promuoversi, non fa scelte arbitrarie tra un sito e l’altro, contrasta quelli che trovano trucchi per distorcere le ricerche in proprio favore. L’algoritmo di Google ormai è così complicato che forse non ci capiscono più nulla neanche loro». In effetti, Google sembra dibattersi tra lo spirito liberista e la famosa «democrazia dal basso» che gli antiliberisti invocano: «Ha successo perché facilita la ricerca di informazioni a partire da una nomenklatura di siti», continua Degli Antoni. «Le ricerche sono molto efficaci sugli aspetti commerciali, sulle informazioni che interessano un grande pubblico. È ricerca veloce, impressione rapida di quello che c’è. Ma non è detto che sia adeguato per ricerche più sofisticate». Il professore cita alcuni motori alternativi: vivisimo.com, mamma.com, alltheweb.com (di Yahoo!).

    Il pesce blog è pieno di link. Nella dialettica tra liberismo e democrazia qualcuno prospera. Male che vada il suono non vi è nuovo. Bene che vada ne avete uno e trascorrete le notti a nutrirlo, per quietare il suo appetito da idrovora. Se le vostre notti sono ancora libere: un weblog (blog) è un sito individuale, facile da usare, in genere composto di brevi testi e di molti link ad articoli e siti esterni. È la forma odierna del vecchio sito amatoriale che, dalle origini, costituisce una delle più forti spinte alla diffusione di internet.
    I blogger (i titolari dei blog) hanno alcune caratteristiche comuni. Sono animali politici (vivono in branchi e amano discutere tra loro) e individualisti (vogliono che il proprio diario sia il più bello, quindi il più linkato, di tutti). Perché questo sia possibile, sono costretti a postare (pubblicare) molto e a linkare come forsennati. In questo modo creano un esplosivo circuito di link, redditizio perché si incastra con l’idea fondativa di Google (one link, one vote). I blog intercettano anche la recency, l’unica, grande, correzione dei criteri di valutazione base di Google. La quantità di link vicendevoli aumenta inevitabilmente la quotazione dei blog in molte ricerche, e quindi il posizionamento. La frequenza degli aggiornamenti (criterio introdotto da Google per offrire le ultime notizie su ogni argomento cercato) costituisce l’altro punto di forza dei blog. In un ambiente così, i pesci freschissimi e pieni di link, che vivono in banchi e rimandano l’uno all’altro, non possono che prosperare. E infatti prosperano. A tal punto da avvelenare, secondo alcuni, l’acqua stessa in cui nuotano (e in cui tutti nuotiamo).

    L’ORGIA DEI PUNTI DI VISTA. Il dubbio non sembra avere sfiorato Page e Brin. Nel gennaio 2003, Google acquista Pyra Labs, cioè Blogger.com, il più grande sistema per la creazione e la gestione dei weblog del mondo. L’intuizione è che di qui passa il futuro di Internet. Un anno e mezzo prima, il 6 aprile 2001, il blogger Adam Mathes si conquistava il suo cantuccio nella storia inventando la prima googlebomb che l’uomo ricordi. Mathes aveva intuito che il motore di ricerca valutava le pagine in base ai link. Per mettere alla prova la sua teoria, chiese ai suoi amici di scrivere sul proprio sito l’espressione talentless hack (maneggione senza talento) linkandola al sito del suo amico Andy Pressman. Dopo qualche giorno, Andy si ritrovò a guidare la classifica della categoria sul motore di ricerca più diffuso dell’universo.
    La scoperta non era da poco. La comunità dei blogger aveva preso coscienza del proprio peso politico. Si era resa conto che davvero, per Google, un link equivaleva a un voto, e mille link a mille voti. Esisteva un modo molto più comodo e divertente dei collettivi politici, delle manifestazioni e delle assemblee, per comunicare all’universo la propria visione del mondo. Anche sul web la minoranza parlante poteva avere ragione della maggioranza silenziosa. Non si tratta soltanto del giochino un po’ goliardico che passa quasi settimanalmente nelle mailing list («Imperdibile: provate a scrivere Faccia da culo in Google immagini e vedete un po’ chi salta fuori»), si tratta della effettiva possibilità di controllare e influire, attraverso il proprio piccolo sito, sull’informazione mondiale. Una sorta di votazione dal basso (tendenzialmente libertaria, visto che la comunità dei blogger è diffusa soprattutto a sinistra) che ha il pregio di segnalare articoli poco visibili, ma tende a soffrire di (e a infliggere all’ignaro navigatore) una certa autoreferenzialità. I blogger amano segnalarsi l’un l’altro. E a volte, anche non volendolo, sono in grado di cambiare il segno e il senso di espressioni altrimenti concepite. È il caso, clamoroso, della «seconda superpotenza mondiale».
    Era il 17 febbraio 2003. Era l’indomani della manifestazione planetaria contro la guerra all’Iraq. La Cnn aveva calcolato che 110 milioni di persone in carne e ossa, persone vere, congelate dal freddo a Londra e rinfrescate dal ponentino a Roma, erano scese in piazza per chiedere pace. Sulla prima pagina del New York Times, Patrick Tyler notava: «Le immense manifestazioni contro la guerra in tutto il mondo di questo weekend ci ricordano che ci possono essere ancora due superpotenze sul pianeta: gli Stati Uniti e l’opinione pubblica mondiale». Lo slogan si diffondeva. Qualche settimana più tardi lo avrebbe ripetuto perfino Kofi Annan, il segretario generale dell’Onu. Poi arrivò James F. Moore, un tale.

    La mano INVISIBILE dell’informazione. Il 30 marzo, James F. postò sul suo blog un saggio intitolato The Second Superpower Rears its Beautiful Head (La seconda superpotenza alza la sua bella testa). La tesi: sono gli utenti di Internet, e per estensione i blog, la vera seconda superpotenza mondiale. Il lavoro fu notato da un paio di blogger potenti e i link prosperarono. Chi cerchi oggi «second superpower» su Google trova il saggio di Moore al primo posto: un caso eclatante della «vittoria» di una piccola comunità sul New York Times, discusso e sviscerato in 208 mila pagine web. Dell’articolo originale si sono perse le tracce. Il rischio è che il fenomeno si ripeta per pagine, espressioni, lavori molto meno visibili dell’articolo di Tyler. Il pericolo è che le comunità più attive su Internet finiscano per impossessarsi dell’informazione raggiungibile attraverso i motori di ricerca. La democrazia ha i suoi rischi. Ed è meglio che a mettere in evidenza un’opinione piuttosto che un’altra siano gruppi di attivi e combattivi commentatori disinteressati e non le grandi corporation. Tutto vero. Però il valore di una ricerca e di un archivio si misura dalla correttezza e dalla raggiungibilità dell’informazione cercata, non da chi la possiede. A meno di non ipotizzare, come in economia fanno ormai solo gli ultraliberisti, una «mano invisibile» anche nei meccanismi dell’informazione. Una legge per cui alla fine, più o meno, statisticamente, grandi masse di persone finiscono per diffondere l’informazione in modo tutto sommato corretto e completo.
    Qui si apre l’altro problema. Il problema. Google è il mondo. Google è tutto quello che cerchi da copiare e incollare in quello che fai, in questo esatto momento. Google ti dà la possibilità di scaricare una toolbar (vedi scheda a pagina 17) che ti evita perfino la fatica di aprire il sito Google. Navighi e cerchi direttamente dalla toolbar, e restringi la ricerca ai blog, al sito su cui sei, a quelli scritti in lingua urdu o in latvico. Un’estensione di ogni pagina web, non un motore di ricerca autonomo. Fantastico. Vero. Piacerebbe un sacco averlo a Bill Gates un giochino così.

    MICROSOFT THE CANNIBAL. Fortunatamente per Google e per chi tifa per lui, pare che nell’autunno 2003 Page e Brin abbiano rifiutato una sua offerta di 10 milioni di dollari. («Ci hanno dato un calcio in culo», avrebbe ammesso Gates qualche mese dopo). Sfortunatamente, per chi detesta Bill Gates, tra non molto la Microsoft avrà il suo motore e le ricerche verranno fatte direttamente dalla pagina di Word su cui stai scrivendo. Con tutta la simpatia per Google, e l’antipatia per Microsoft, chi ce lo farà fare di aprire Google, quel giorno? Disporre di un unico software cannibale provocherà qualche senso di colpa, ma sarà tanto tanto comodo.
    La natura bifronte, ambigua, di internet, figlia dell’Esercito e degli hippy degli anni Sessanta, si rivela anche nella nascita di una nuova figura professionale: gli ottimizzatori di Google. Consulenti pagati da chi può, per incrementare il proprio ranking su Google. «Ci sono molte aziende specializzate in questo», spiega Massimo Marchiori. «Il primo trucco è mettere in una pagina 30 link al sito che voglio promuovere. Google è riuscito a prendere le contromisure. Allora sono passati al secondo trucco: 30 link in 30 pagine diverse dello stesso sito. E anche qui Google è riuscito ad annullarne l’effetto. È rimasta l’opzione più costosa: 30 siti diversi creati apposta per linkare una certa pagina. E in questo caso Google è in difficoltà. In più molti siti riconoscono l’arrivo del crawler di Google e gli fanno trovare una pagina apposta per lui, diversa da quella che poi vedono i navigatori».
    C’è il pericolo — nonostante i filtri e le tecniche antispam messe a punto a Mountain View — che i blog abbiamo loro malgrado indicato una strada a chi ha il denaro per percorrerla e che l’accesso e il controllo dell’informazione mondiale finisca per ritornare nelle stesse mani di sempre. Non sempre, forse di rado, il migliore è anche il più forte. Ma se Bill Gates è Superman, Page e Brin non sono due imbecilli. E qualche idea ce l’hanno.
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  10. #10
    L’OPPIO DEI POPOLI. Oggi il 95 per cento del fatturato di Google (961,9 miliardi di dollari) si deve alla pubblicità, a piccoli annunci molto simili a quelli di Diario.it. Mentre i giganti mandavano in giro i loro venditori a infestare la rete di Pop Up, le pagine che si aprono senza che nessuno gliel’abbia chiesto e che si chiudono soltanto se perdi tempo a chiuderle, pagine di cui Google è nemico (dalla toolbar si possono disattivare), a Mountain View si vendeva pubblicità di piccolo formato, sobria, non invasiva, associata alla ricerca fatta dall’utente. È un po’ disturbante digitare Viagra e vederselo offrire. Però può essere utile e una farmacista imbarazza di più. Il modello, economicamente, ha funzionato benissimo. Anche se ha un po’ sporcato l’immagine «Don’t Be Evil» dell’azienda.
    Google ha smesso soltanto nel 2002 di pubblicizzare la vendita di armi e continua a promuovere psicofarmaci come il Vicodin, un oppiaceo di gran moda, che in molti Stati è vietato senza ricetta. Ma anche siti di escort o per scommettere online. Google accetta gli annunci della Chiesa di Scientology, ma fa scomparire «per sbaglio» dagli indici 126 pagine anti Scientology. Pubblicizza Royal Caribbean, ma non Oceana, un’associazione che si batte contro l’inquinamento nel mar dei Caraibi provocato anche dalle navi da crociera Royal Caribbean. Ultimo esempio: il rifiuto di pubblicizzare la vendita di una maglietta blandamente anti Bush (con una semplice «W» barrata). Forse si tratta di inconvenienti ineliminabili quando hai da gestire 200 milioni di ricerche al giorno, 3 miliardi di pagine in 36 lingue e oltre 100 milioni di inserzionisti. Google è uno strumento, neutro in quanto tale, che oggi è ancora più buono che cattivo. Certamente, come Microsoft, ha le potenzialità per essere devastante.

    QUANDO SCADE IL BISCOTTINO? Nel marzo 2002, la Cia è stata costretta a liberarsi di un cookie relativamente innocuo, capitato per caso lì dove stava. Il «biscottino» è un piccolo file di testo che ti si infila nel pc. Serve ai gestori del sito per avere statistiche più attendibili sul comportamento dei visitatori. Attraverso il cookie, però, è possibile raccogliere informazioni molto dettagliate sulle abitudini del navigatore. Attraverso il cookie, i motori di ricerca possono ricostruire gli interessi di ogni singolo utente. Anche se la legge sulla privacy disciplina in modo rigido le informazioni che i siti possono utilizzare per scopi commerciali, molte di queste vengono registrate e in parte utilizzate. Paragonato al cookie di Google, quello di cui si è dovuta liberare la Cia era davvero un biscottino che durava una decina di anni. Quello di Google, piuttosto complicato da disabiltare, è programmato per sparire soltanto nel 2038. Fino ad allora, terrà traccia di ogni nostra ricerca, disponibile ad essere associata al nostro IP (cioè al numero del nostro singolo computer), al sistema operativo, al browser e perfino all’area geografica in cui viviamo e consumiamo. La durata è considerevole, le possibilità quasi illimitate, ma Google almeno fino a oggi non offre servizi che richiedono la registrazione e quindi l’esplicito consenso all’uso dei dati.
    È la strada scelta dall’altro grande avversario: Yahoo!. Dopo essersi alleati (Google potenziava le ricerche di Yahoo!) e avere collaborato per anni ignorandosi cordialmente, nel febbraio scorso i due giganti hanno divorziato. Una separazione che annuncia l’imminente potenziamento della ricerca su Yahoo!, la cui forza poggia su un numero di utenti simile, su un fatturato doppio (ottenuto facendo pagare l’inserimento negli indici), ma soprattutto su una gigantesca banca dati ottenuta proprio attraverso la registrazione. Anche in questo caso, non è detto che il migliore sia anche il più forte. Benedetti ragazzi, come pensate di farcela?

    Il futuro è una finestra. «Il nostro scopo», ha dichiarato Page a Newsweek, «è di cercare l’informazione mondiale e organizzarla». È qui che probabilmente si gioca la partita. L’informazione mondiale non sono solo i siti, non sono soltanto i giornali online e neppure i blog. Il pezzo di «informazione mondiale» ancora da cercare e organizzare riguarda tutti noi, monadi che non siamo altro. Riguarda i nostri singoli pc e i documenti, le nostre foto, i software che utilizziamo ogni giorno. Riguarda le e-mail, soprattutto le e-mail. La strategia – la sola speranza per Google di battere Microsoft e Yahoo! – sta tutta in un progetto che si chiama «Gmail».
    La nuova creatura di Brin e Page, benché ancora sperimentale, sta sollevando attese e paure. La novità è nelle dimensioni: 1 giga, ovvero 1.000 megabyte contro i 4 di Yahoo! e i 3 di Hotmail, cioè di Microsoft. Significa che potrà essere usata al posto del normale software di posta elettronica. Per ripagarsi di tanta munificenza, i nostri messaggi di posta elettronica ospiteranno pubblicità. Associarla alle ricerche degli utenti o all’argomento dei messaggi sarà solo questione di legge e di scelte, non di tecnologia. Lo stesso discorso vale per la possibilità di scegliere gli inserzionisti in base alla zona, magari alla via, dove abita il consumatore. In cambio, la posta di Google sarà spaziosa, veloce, facile da usare e – marchio di qualità dell’azienda – consentirà di cercare tra migliaia di messaggi in modo semplice e intuitivo. Una finestrella in alto permetterà ricerche direttamente dal programma di posta. È la contromossa, l’unica possibile, al motore di ricerca che Bill Gates infilerà in Word, proprio in cima alla pagina su cui scriviamo.
    Il futuro è una finestra. Un corridoio spalancato tra il nostro computer e la rete mondiale. Tutto lascia pensare che la finestra di Microsoft si aprirà sul foglio di testo, quella di Google nella posta elettronica. Oggi Microsoft controlla il nostro pc, Google governa sulle reti. Entrambi, Word e Gmail, non potranno che assediare la storia privata di ognuno di noi, quello che scriviamo, per passione o per mestiere, e quello che decidiamo liberamente di comunicare agli altri. Difficile fare scommesse. Ma solo allora, i singoli cervelli daranno forma al cervello del mondo. Non sarà una trasformazione da poco. Il concetto e le pratiche della democrazia, così come abbiamo imparato a conoscerle, cambieranno radicalmente, chiunque sarà il vincitore. Nessuno dei contendenti è ideale, ognuno comporta rischi e può essere criticato. Ma non si tratta di modelli equivalenti. Tra Bush e Kerry si può sempre votare Nader, ma poi il rischio è che oltre all’Alaska ti distruggano anche l’Iraq.

    PS. per key ===> ora lo devi leggere tutto
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