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  1. #11
    Originariamente inviato da vificunero
    Molti agricoltori non vuol dire nulla. Per prima cosa è necessario capire di quanti lavoratori stiamo parlando (pochi visto la % di occupazione dell'agricoltura è minima) e di quanto ci costa mantenere questi posti di lavoro. Va inoltre considerata la possibilità di riconversione di certe colture, nuove opportunità nell'agricoltura e così via.

    C'è un interessante esempio che può far capire quanto l'argomentazione dell'occupazione sia debole, praticamente inesistente. Negli stati uniti ci sono forti sussidi sullo zucchero per salvaguardare gli interessi degli agricoltori. Le aziende dolciarie pagano molto di più lo zucchero. Il business non è più redditizio, spostano la produzione in Messico. Il prezzo dello zucchero resta comunque alto. In definitiva si perdono più posti di lavoro, si danneggiano i consumatori, si sprecano risorse pubbliche.
    NOn iniziare a fare l'evangelista capitalista eh...
    Ho solo detto quelle che succederebbe.

    E sul fatto della bassa percentuale in agricoltura mi sa che che te lo sei sognato.

    Inoltre, in UE ci sono dazi doganali proprio per evitare (o ridurre) di rivolgersi all'estero per comprare le arancie.

  2. #12
    Originariamente inviato da dokk
    E sul fatto della bassa percentuale in agricoltura mi sa che che te lo sei sognato.
    4,9% 2005. In discesa.
    The more the state 'plans' the more difficult planning becomes for the individual.
    Sto nella Pampa

  3. #13
    Ma al di fuori la concorrenza non è libera per volere dell'UE o di altri accordi internazionali che non dipendono da noi?

    Inoltre, sì, tutto ciò va a vantaggio di quelle aziende che continuano a produrre, ma perchè chiuderne altre magari con esperienza decennale, invece che imporgli un divieto di vendere nel mercato comune, lasciandole libere -se sopravvivono- di esportare?

    Infine, ammesso e non concesso che questa pratica abbia un qualche fondamento - che sto cercando di trovare - mi domando perchè e su che basi un paese deve limitare culture storiche a favore di un altro che magari non ha neppure ancora gli impianti. Se tutto questo ha come ragione la riconversione delle colture in nuovi prodotti, perchè non lasciare questo compito ai nuovi membri, ma pur sempre rispettando anche per loro coltivazioni tipiche, che evidentemente sono diverse da zona a zona?

  4. #14
    Originariamente inviato da MasterLibe
    Tanto per integrare il discorso, io considero mezzi di protezionismo improprio anche le denominazioni, le etichettature
    No, su questo dissento radicalmente.
    Una certa varietà agricola o prodotto alimentare in genere è indissolubilmente legato ad un territorio, ad un clima, ad una tradizione che magari ha richiesto secoli per raffinarsi.
    Ora, che la globalizzazione permetta a tutti di fruirne è un bene, ma non a scapito del territorio e dei produttori originari.

    Vedila come una sorta di tutela del diritto d'autore su prodotti alimentari. Tanto più sentita oggi dove il primario sta adottando mezzi di produzione industriali e dove il marketing può essere più forte della genuinità.

  5. #15
    Originariamente inviato da vificunero
    4,9% 2005. In discesa.
    4,9% cosa?

  6. #16
    Originariamente inviato da MasterLibe
    La qualità non si fissa per legge e il marketing non rientra tra i compiti degli stati, delle regioni o di qualsiasi altro ente territoriale. La qualità deve essere riconosciuta dal mercato.
    La genuinità si fissa *anche* per legge, vedi le normative anti-sofisticazione. Per marketing intendo l'utilizzo di termini volgarizzati (vedi Parmesan cheese) da parte delle imprese ovunque.

    Il punto è che la qualità di un prodotto, senza arrivare a derive soggettivizzanti, non si può ridurre alla sola composizione chimica standard (latte in forma e stagionato), ma bisogna riconoscere che in certi territori, per condizioni climatiche specifiche, il prodotto non esce allo stesso modo che nel resto del mondo. Senza contare le tecniche produttive: un vino in barrique, richiede botti e cantine che sfornano vino da secoli, e non è ottenibile con l'aggiunta di additivi/aromi, salutari fin che vuoi.
    La denominazione è un "riconoscimento" di queste maestranze secolari, di fatto, inimitabili, sebbene il consumatore medio non possa percepire le differenze.

  7. #17
    L'importante è che scrivano che dentro c'è lo zucchero però.
    E dove viene fatto.

  8. #18
    Originariamente inviato da MasterLibe
    Ti faccio un esempio: la settimana scorsa al solito supermercato ho trovato scritto sul cartello del banco delle arance "Italia" (di questa stagione vendono arance italiane). Uno di quei motivi per cui viene scritta quella provenienza è che dovrebbe essere garanzia di qualità, soprattutto se la provenienza è "Italia" (in questo, la politica dei supermercati è del tutto simile alle politiche delle denominazioni e delle etichettature). Peccato che pur arrivando dall'Italia, la qualità di quelle arance era di molto più bassa di altre arance di provenienza italiana.

    Altri esempi li si trovano agli scaffali dei vini sempre dei supermercati: ci sono un sacco di vini etichettati DOC che sono peggio della sciacquatura di piedi. L'etichetta non è garanzia di qualità.

    Se qualcuno vuole vendere col nome di parmesan una schifezza, sarà poi il mercato a rendersi conto che quel nome non c'entra con la qualità millantata. Se, invece, qualcuno vende col nome di parmesan un formaggio indistinguibile da un parmigiano reggiano garantito... be' se la qualità è la stessa non vedo perché il nome dovrebbe fare la differenza. Posto che un nome garantito permette di vendere a un prezzo più alto.

    La questione, invece, delle sofisticazioni e delle adulterazioni è diversa: l'unico obiettivo che dovrebbe essere perseguito è la salute dei consumatori. Lo zucchero nel vino non dovrebbe essere tema di spreco di tempo per i NAS, per la solita storia che se abbassa la qualità, sarà il mercato a rendersene conto, ma se non abbassa la qualità è come spendere 500 euro per un pezzo di stoffa solo per il nome stampato sull'etichetta. Se, invece, può causare problemi di salute, allora è qui che si deve intervenire.

    In conclusione, non è un'etichetta che mi deve dire cosa mi piace o cosa no, sono io che lo stabilisco.
    Economicamente è ineccepibile, ma c'è un errore: il consumatore americano si lascia fuorviare dal marketing e non distingue il vero parmigiano da quello tarocco (talvolta pure agli italiani, ho visto mangiare schifezze, non essendo abituati alla qualità), quindi non si può sempre garantire al consumatore ciò che vuole, quando lui stesso non sa cosa è meglio o peggio.
    inoltre non è il prodotto dall'origine certa che costa di più, sono le imitazioni che costano meno perchè, pur essendo salutari e magari gustose, non sono "ontologicamente" quel prodotto specifico, vuoi per una serie di finezze, che però lo caratterizzano.
    se poi mi dici che dei marchi doc & co si è abusato, questa è una devianza che non inficia l'idea di marchio collettivo o denominazione d'origine. nulla vieta peraltro che il vino sudafricano sia ottimo, per il clima temperato, ma chiamarlo "brunello", pur se la composizione è quanto di più simile possa esserci, converrai che non è economicamente corretto.

    infine, mai detto che l'etichetta sia garanzia di qualità, semmai l'ordine dei fattori è l'inverso.

  9. #19
    riferendomi agli americani, parlo del consumatore di ogni dove, che non conoscendo il prodotto orginale, ne acquista uno che crede simile, dato che non sarebbe vietato utilizzare un termine fortemente territorializzato.

    inoltre tu lamenti che entrando a far parte del club dei produttori selezionati si sarebbe avvantaggiati. questo è vero per le procedure con cui si è ammessi ad apporre la denominazione, ma anche questo non invalida il sistema in sè. certo, se la si usa come strumento per alzare il prezzo, questo non è economicamente auspicabile, ma è QUI che entra in gioco il consumatore "di qualità", il quale, andando alla ricerca del prodotto "tipico" si può presumere essere un intenditore, quindi in grado di bocciare immediatamente chi abusa del nome per vendere più caro. la stessa cosa, ripeto, non è possibile col consumatore medio che ricerca genericamente un prodotto che ricorda quello tipico. in definitiva: prima garantire la denominazione (con pratiche che ne impediscano un uso distorto) a tutela delle maestranze di cui dicevo, poi -solo dopo- fare affidamento sul mercato per escludere dal club i truffaldini.

  10. #20
    Originariamente inviato da MasterLibe
    spesso il consumatore, anche se gli si dà un vinaccio, si lascia influenzare un po' troppo dall'etichetta.
    esatto. per questo bisognerebbe vietare, da un lato, un uso di termini specifici/tipici per prodotti similari, anche nei casi in cui non si può parlare di marchio ingannevole; dall'altro bisogna assegnare la denominazione solo a chi realmente risponde ai requisiti richiesti con procedure più idonee.

    per il resto quel che dici è corretto, non è certo l'etichetta che fa la qualità, né tantomeno ci dev'essere un'intenzione in questo senso, ripeto dev'essere un riconoscimento ex post.

    ...in quanto all'olio... non sai che ti perdi se non assaggi quello toscano. vero, non il Carapelli.

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