Come indica il nome dell’editio maior, il Grande dizionario italiano dell’uso diretto da Tullio De Mauro è, a differenza di altri di taglio più normativo, un dizionario che registra l’uso invalso, anche per quanto riguarda l’accentazione delle parole. Si tratta di una scelta consapevole fatta dagli autori (e che si può, ovviamente, non condividere): quando certe pronunce attecchiscono anche nell’uso colto e semicolto e vengono percepite come ‘normali’ dalla maggioranza dei parlanti, esse finiscono per diventare, col tempo, prima ‘accettabili’ e poi ‘corrette’. L’esempio più clamoroso è forse quello del verbo ‘valutare’: la pronuncia etimologicamente corretta è piana, ma oggi chi direbbe più ‘tu ti sottovalùti’? O ‘io sèparo’, o ‘io èlevo’? L’evoluzione delle lingue procede dagli errori, come ci dimostra la storia. Naturalmente ciò non significa che non si debba lottare.
Personalmente, non mi sentirei di raccomandare ‘rùbrica’ (né, peraltro, ‘diùresi’, ‘leccòrnia’, ‘mòllica’ e molte altre), e la segnalazione, nei dizionari, della preferibilità di ‘rubrìca’, ecc. – in modo esplicito, e non col solo preporre la pronuncia ‘migliore’ a un’altra ‘accettabile’ – non comprometterebbe certo la serietà dell’opera; anzi, faciliterebbe le cose per chi desideri conoscere la pronuncia più raccomandabile. Bisogna purtroppo ammettere che tutelare la ‘retta’ pronuncia, con l’influsso inquinante della televisione, è, ahimè, tanto lodevole quanto inane. Se la televisione e la radio fossero pienamente conscie della loro responsabilità linguistica, la pronuncia corretta – e qui si parla solo d’accentazione – sarebbe forse più diffusa.
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