A dispetto dei piani e delle promesse, l'Italia è un mercato, ma non necessariamente una produzione. Costa troppo, in tutti i sensi: manodopera, infrastrutture, fisco. E rende poco: numero di veicoli prodotti, utili per singola automobile, reti di vendita. In Italia la Fiat produce 650 mila vetture l'anno con 22 mila operai, in Polonia 600 mila con 6.100 operai, in Brasile 730 mila con 9.400 operai. Questi sono i numeri. E con questi numeri perché mai Sergio Marchionne, "l'Oracolo dell'auto" come lo definisce enfaticamente il "Financial Times", dovrebbe "morire" per Pomigliano o addirittura per Mirafiori? Preferisce andarsene a Kragujevac, e sfornare lì la nuova monovolume.
E a chi prova a dargli torto, può opporre a sua volta qualche numero: su un investimento di un miliardo di euro, 650 milioni li metteranno il governo serbo e la Bei, con in più un'esenzione fiscale di dieci anni e un contributo di 10 mila euro per ogni nuovo assunto, la cui paga base sarà di circa 400 euro. Perché, a queste condizioni, non dovrebbe andare in Serbia? Per una difesa dell'"interesse nazionale"? Marchionne è svizzero-canadese, ormai vive più a Auburn Hills che al Lingotto: l'unica cosa che conta è il posizionamento del gruppo nella sfida globale. Oppure per una "responsabilità sociale dell'impresa"? Marchionne non è Adriano Olivetti: oggi l'unica cosa che conta, secondo il gergo della modernità, è "creare valore" per gli azionisti.