Il ministro D'Alema (lo rivela la Newsletter dell'ufficio di cooperazione allo sviluppo dell' ambasciata italiana a Pechino) parlando col direttore Giorgio Sparaci, l'uomo che in Cina segue le sorti dei fondi pubblici destinati alle nazioni in via di sviluppo, ha messo sul piatto il problema: dobbiamo andare avanti?

(mah non so fai un po' tu... ah D'Alè!!!!)

Buoni propositi. Era il novembre 2006, la cifra stanziata dall'Italia era di 179 milioni di euro. E pareva che la storia potesse concludersi lì.

(e invece il mese dopo...)

Nel dicembre 2006 il governo italiano è venuto in missione ufficiale a Pechino e dal cilindro degli accordi bilaterali è spuntato un rifinanziamento della cooperazione per 70 milioni di euro. Risultato: nel 2008 l'Italia, come da intese, porterà da 179 a 250 milioni di euro il suo «aiuto» pubblico alla crescita cinese.
Una ventina di interventi mirati e lodevoli ma a carico del bilancio. Nulla di scandaloso. La cooperazione è necessaria e giusta. Solo un po' paradossale per come si presenta nel caso cinese:

mentre Parigi o Berlino o Londra — considerando i sorpassi effettuati da Pechino—adottano proprio dal 2008 e per 5 anni una strategia di «phase out», di riduzione per gradi delle sovvenzioni, Roma tarda a indirizzarsi sulla medesima strada.

(non ci smentiamo mai...)

Dicono le istituzioni finanziarie internazionali che Pechino in questi anni, con la sua poderosa crescita, abbia contribuito a ridurre del 75 per cento la povertà sul globo. La scalata lascia segni profondi, le disuguaglianze si acuiscono ma l'accumulazione di fondi e di patrimoni è inarrestabile. Fra qualche settimana vi sarà l'annuncio che il Pil della Germania è nel mirino o addirittura superato.

Con il suo fondo sovrano che ha in tasca 200 miliardi di dollari la Cina si compera il 10 per cento di Morgan Stanley e va a fare spesa a Wall Street. Ha davvero bisogno di una «mancia» da 250 milioni di euro?

(la paghetta praticamente...)