Se “La felicità porta fortuna” di Mike Leigh guarda la vita dal lato del bicchiere mezzo pieno, “Come Dio comanda” di Salvatores sta decisamente dal lato del bicchiere mezzo vuoto, anzi, talmente vuoto da raschiarne il fondo.
Padre e figlio, Rino e Cristiano Zena, sono due emarginati che abitano in un vecchio casello ferroviario abbandonato, tra le fabbriche da un lato e il fiume dall’altro.
Il padre, Rino, è un fallito: disadattato, violento, disoccupato, ideologicamente nazista, sfoga nel bere le sue depressioni e il suo disprezzo per il mondo; Cristiano, il figlio quattordicenne, frequenta la scuola ma non ha amici, è chiuso, distante, imbevuto degli insegnamenti razzisti del padre che gli ha insegnato che ci vorrebbe un Adolf Hitler per rimettere a posto le cose in Italia. Per lui il padre è tutto, l’unico riferimento, l’unica guida della sua vita.
Unico amico dei due è Quattroformaggi, un altro disadattato fuori di testa, il cui mondo è quello del presepe in miniatura che ha costruito mettendoci dentro di tutto, e il cui amore è Ramona, una diva del porno in videocassetta.
Padre e figlio guardano al mondo come a un nemico, a un qualcosa che li ha costretti a quella condizione, condizione alla quale si può reagire solo con la violenza, anche con la pistola se necessario, quella stessa pistola che Rino mostra orgogliosamente a Cristiano.
Nonostante tutto i due si vogliono bene, amano l’un l’altro con affetto quasi morboso, si amano perché il loro amore di padre e figlio è l’unica salvezza dal mondo nemico che credono li circondi, l’unica protezione dalle avversità della vita.
Accadrà un episodio tragico, che in modo diverso coinvolgerà padre, figlio e Quattroformaggi, nel quale il figlio farà di tutto per coprire il padre, preoccupato più di salvare il suo unico affetto che non di cercare la verità e la redenzione.

Il film ha un suo stile, è ben girato e ha una sua forza nella fotografia, ma la rappresentazione del cupo universo esistenziale mostrato da Salvatores costituisce sia il pregio che il (grande) limite del film. Dove il limite è quello di fotografare una situazione, ma senza dare alcuna risposta, senza chiarire perché Rino è un emarginato nazista, né cosa accadrà a Cristiano, se riuscirà a uscire da quell’esistenza o se rimarrà imbevuto dell’imprinting paterno. Troppo flebile la speranza, eccessivamente calcati i toni sull’affetto morboso dei due, quasi disturbante in una situazione dove anche il vuoto interiore dovrebbe avere una netta prevalenza. Decisamente forzato il ruolo di Filippo Timi (il padre) che si vede che recita senza sentire la parte, senza contare il messaggio negativo, nichilista che il film lascia, questo totale rifiuto del mondo senza alcun tentativo per aprirsi allo stesso. E sono soprattutto i limiti del film che alla fine pesano nel mio giudizio, anche se consiglio comunque di andarlo a vedere.

Globale **






[Salvatores]