Ed ecco il secondo articolo, diviso in due messaggi.
Storia di un palazzo abitato dai boss
Il presidente del Senato era il legale del costruttore
C’è un palazzo a Palermo, vicino allo stadio della Favorita, che spiega meglio di un trattato la mafia e l'antimafia. I suoi nove piani sono un monumento alla prevaricazione dei forti sui deboli, dei corrotti sugli onesti. Sono stati costruiti in spregio a ogni norma con la complicità della politica, calpestando con la ruspa i diritti di due donne inermi.
Ogni muro, ogni mattone, profuma di mafia. Chi ha eseguito i lavori e chi li ha diretti, chi ha fornito il calcestruzzo e chi ha fatto gli scavi, chi ha guadagnato vendendo gli appartamenti e talvolta anche chi li ha comprati, è legato da vincoli di sangue o di cosca con i padrini più blasonati di Palermo: Madonia, Bontate, Pullarà, Guastella, Lo Piccolo. Il capo dei lavori, Salvatore Savoca, è stato strangolato perché non voleva dividere il boccone di cemento con un clan più forte del suo: i Madonia. L'assessore che ha dato la licenza è stato condannato per le mazzette ricevute in cambio della licenza. Il costruttore Pietro Lo Sicco è stato condannato per mafia e corruzione ed è in
galera. Il palazzo è stato confiscato e le vittime, Rosa e Savina Pilliu, vivono proprio nell'appartamento nel quale dormiva Giovanni Brusca, l'uomo che ha schiacciato il telecomando della strage di Capaci.
Sembrerebbe una storia semplice nella quale è persino troppo facile scegliere da che parte stare. E invece la storia di Piazza Leoni dimostra che la vita è fatta di scelte, mai scontate. Questo palazzo incrocia il destino di due uomini famosi e distanti tra loro: Renato Schifani e Paolo Borsellino. Il primo (prima che le procure e i tribunali accertassero le responsabilità del costruttore corruttore e mafioso) ha messo a disposizione la sua scienza per sostenere il torto del più forte. Il secondo, nei giorni più duri della sua vita, ha trovato il tempo per ascoltare le ragioni dei deboli. Quel palazzo è ancora in piedi anche grazie anche ai consigli legali, ai ricorsi e alle richieste di sanatoria dello studio legale Schifani-Pinelli del quale il presidente del senato è stato partner con l'amico Nunzio Pinelli negli anni chiave di questa vicenda, prima di lasciare il posto al figlio Roberto. Mentre Schifani combatteva in Tribunale per Lo Sicco, il giudice Paolo Borsellino, trascorreva le ore più preziose della sua vita per ascoltare le signorine Pilliu.
INCROCI DEL DESTINO
E c’è una coincidenza che fa venire i brividi perché proprio da Piazza Leoni, dove allora sorgeva lo scheletro del palazzo abusivo, sarebbe partita al’alba del 22 luglio 1992 la Fiat 126 imbottita con 90 chilogrammi di tritolo che ha ucciso il giudice istruttore. Le signorine Pilliu non lo sapevano ma quelli che si nascondevano dietro il costruttore che le minacciava stavano preparando le stragi. Chissà se Borsellino aveva intuito qualcosa di strano dietro quel palazzo. Una cosa è certa, se dieci giorni prima di morire, 50 giorni dopo la morte di Falcone, un uomo come lui perdeva tempo a parlare con queste signorine doveva esserci una ragione. Forse allora, 17 anni dopo, vale la pena di riascoltare il racconto di Savina e Maria Rosa Pilliu.
SORELLE-CORAGGIO
Queste due signorine di origine sarda possedevano due casupole all’interno di un filarino di ex fabbriche riadattate ad abitazione. Il padre era morto giovane ma le sorelle e la mamma, a costo di mille sacrifici, erano riuscite ad andare avanti grazie a un negozio di generi alimentari a due passi da piazza Leoni. Tutto scorreva liscio finché la mafia non mise gli occhi sul terreno accanto alle casette. “All’inizio si fece avanti Rosario Spatola”, raccontarono le sorelle quel giorno a Paolo Borsellino. Al giudice si accesero gli occhi. Spatola è stato uno degli uomini più ricchi della Sicilia, il costruttore della vecchia mafia di don Stefano Bontate, sterminata da Riina negli anni ottanta, l’amico del banchiere Michele Sindona, che aveva ospitato nella sua villa fuori Palermo. Nel settembre del 1979, Spatola si presenta nel negozio della famiglia Pilliu in via del Bersagliere e fa la sua proposta per comprare le casette. Ovviamente non voleva tenerle ma distruggerle. Per costruire un palazzo più grande sul suolo di fronte, eliminando le case e il problema delle distanze. L’idea era buona ma due settimane dopo, proprio per l’inchiesta nata dai contatti tra Sindona e la mafia, Spatola finisce in galera. Il terreno passa dopo un paio di giri a Gianni Lapis, consulente di Vito Ciancimino, per finire nel 1984 a un costruttore ignoto: Pietro Lo Sicco, un benzinaio legato al boss della mafia perdente, Stefano Bontate.
Più andavano avanti nel loro racconto, più snocciolavano nomi e date con il loro eloquio antico, e più il giudice Borsellino si interessava alla loro vicenda. Spatola, Ciancimino, Lo Sicco. Anche il nome del costruttore probabilmente diceva qualcosa a Borsellino. Era stato arrestato da Giovanni Falcone, ma poi prosciolto. Lo Sicco era legatissimo a Stefano Bontate però quando il vecchio boss viene ucciso passa con i vincenti. Quando rileva il terreno cerca subito di comprare le casette di fronte per ampliare lo spazio e la cubatura. Con le buone o le cattive convince tutti a vendere. Nessuno osa dirgli di no. Tranne le sorelle Pilliu che non vogliono svendere. A questo punto succede l’incredibile: Lo Sicco dichiara al comune di avere anche le particelle catastali della mamma delle sorelle Pilliu. Ovviamente sotto c’è una mazzetta all’assessore all’urbanistica che frutta una licenza che prevede due cose connesse: la possibilità di costruire un palazzo con tre scale e sette piani (che poi diverranno nove) a condizione però che prima la società di Lo Sicco, Lopedil, abbatta le casette che però, piccolo particolare, non sono della Lopedil. Il 3 marzo del 1990 la società ottiene la concessione edilizia. Le Pilliu denunciano alla Prefettura e al Comune l’abuso ma non si muove nulla. Anzi si muovono le ruspe. La Lopedil tira su il palazzo e butta giù le casette. Le ruspe demoliscono quelle accanto e i piani superiori del fabbricato. Gli appartamenti delle Pilliu (che per fortuna dormono altrove) si ritrovano senza tetto: c’è solo il pavimento del piano superiore a difenderli dalle intemperie. Le sorelle chiamano i vigili urbani, la Polizia e i Carabinieri ma nessuno interviene. Il comandante dei vigil arriva sul luogo e sembra possa essere il salvatore delle sorelle ma dopo aver controllato le carte dice: “sono in regola e io posso fermare un automobilista senza patente non uno con una patente falsa”.
LA MINACCIA
Le signorine cercano di opporsi fisicamente ma Lo Sicco le minaccia e le offende dicendo a Rosa Pilliu: “Vattene - da qui perchè se no ti dò un - timpuruni. Senti a me, vai a vendere i tuoi pacchi di pa- ri- sta al negozio che tra un po’ - non potrai vendere più nemmeno quelli”. È in questa fa- . se che le sorelle, disperate, ri- chiedono aiuto a Borsellino. Si vedono l’ultima volta il 13 in luglio, il magistrato le rinvia a due giorni dopo. Ma è il giorno di Santa Rosalia, le Pilliu non vogliono perdersi la festa alla “Santuzza” e chiedono di fissare un appuntamento più in là. Borsellino si impegna a richiamarle. Dieci giorni dopo morirà in via D’Amelio.
TRITOLO
Il giudice non poteva sapere che proprio gli uomini interessati a quel palazzo stavano preparando la sua uccisione e le stragi del 1993 a Roma, Firenze e Milano. Giovanni Brusca, il boss che ha spinto il pulsante del telecomando della strage di Capaci, l’uomo che ha ordinato ed eseguito un centinaio di omicidi, tra i quali quello del bambino Santino Di Matteo, colpevole solo di essere figlio di un pentito, ha raccontato: “Gli scavi a Piazza Leoni li ha fatti Pino Guastella (arrestato come capo mandamento Palermo centro nel 1998 Ndr). Poi io mi sono comprato un appartamento, tramite Santi Pullarà, che mi ha fatto fare un buon trattamento. Ci ho dormito pochi giorni però. Lo avevo fatto intestare a Gaspare Romano. Costui poi nel '95 fu scoperto dalla DIA che lo pedinava e mi sono fatto ridare i soldi indietro, perché a quel punto a me l'appartamento non serviva più. Siamo andati a vederlo con Leoluca Bagarella (il cognato di Riina che ha guidato la mafia durante la stagione delle stragi del 1993), io con una macchina e lui con un'altra, di sera. Più che altro per scegliere i piani e vedere gli appartamenti come erano combinati, perché ancora erano grezzi, in costruzione. Cioè dovevamo riuscire a capire come funzionavano, se c'era l’ascensore, se c'erano scale. Una cosa che io avevo chiesto, di particolare, se era possibile poter fare l'ascensore come come quello che avevo visto nella casa di Ignazio Salvo (uno dei cugini esattori di Salemi, legati alla Dc andreottiana e arrestati da Falcone) che io ho frequentato molto. Lui quando arrivava con la sua macchina, prendeva l'ascensore e con una chiavetta saliva fino all'attico. E quindi era un suo privilegio, e io chiesi questa cosa ma non era realizzabile perché il garage era per tutti, non solo ed esclusivamente per me”. Poi però i boss capirono che due latitanti per un palazzo era troppo. “Bagarella era interessato pure ed è venuto a vederlo con l'intenzione di comprare. Quella sera ci sono andato con Gioacchino La Barbera (altro autore della strage di Capaci, ndr). Lo abbiamo scelto sia io che Bagarella perché era un posto di élite a Palermo. Cioè Piazza Leoni, era un investimento. Poi io pensavo successivamente di farci la latitanza, ma questo era un problema mio”. Anche Gioacchino La Barbera, pentito dopo aver partecipato alla strage di Capaci conferma e aggiunge particolari: “Ho accompagnato varie volte sia Leoluca Bagarella che Giovanni Brusca a piazza Leoni. Brusca sul posto con una persona responsabile del cantiere stava cercando di fare modificare un appartamento per essere comunicante. Perché stava studiando un'intercapedine per trascorrere la latitanza e in caso di un sopralluogo delle forze dell'ordine riuscire a nascondere o a scappare”.
(segue nel messaggio successivo)