@fulgenia
Al capitalismo servono laboratori, ricerca, istruzione, infrastrutture ecc.. eppure il capitalismo straccione italiano non è in grado di darseli. Questo non significa che non gli servano queste cose. Poi è chiaro che in ogni modo alla povera gente vanno solo le briciole.
@Nuvolari2
il capitalismo si può dare un colpo di cipria ma non può migliorare la propria essenza. Anche dopo il '29 i capitalisti vollero darsi nuove regole, e sempre dopo ogni crisi si sono cercate "nuove regole".
Le grosse crisi del capitalismo del dopoguerra sono sono incominciate nel 1971 e ogni volta i capitalisti hanno detto che occorrevano nuove regole. Poveri quelli che ci hanno creduto.
Nel 1971, gravati da un enorme deficit della bilancia dei pagamenti (conseguente al loro indebolimento sui mercati internazionali e al deficit dello Stato amplificato dalla guerra in Vietnam), gli Usa decretarono unilateralmente l’inconvertibilità del dollaro in oro (di fatto sospesa da tempo), allo scopo di: promuovere la svalutazione del dollaro e, di conseguenza, un alleggerimento automatico del deficit di bilancia dei pagamenti; far riacquistare competitività alle merci americane, facendo gravare l’inflazione sugli altri paesi capitalisti; indurre una parziale svalorizzazione delle riserve in dollari dei paesi concorrenti e degli stessi eurodollari.
Il deprezzamento del dollaro spinse i possessori di grandi capitali monetari (ovvero i capitalisti finanziari) a cercare di garantirsi contro il rischio di possibili perdite attraverso l’acquisto di materie prime, inducendo un generale rialzo dei prezzi, che aprì la strada all’impennata del prezzo del petrolio del dicembre 1973.
Tra la fine del 1973 e l’inizio del 1974 il prezzo del petrolio si quadruplicò. Il prezzo del petrolio aveva avuto una storia relativamente tranquilla dalla seconda metà del XIX° secolo fino ai primi anni ’70 del secolo scorso, quando i 6 paesi dell’OPEC(3) fecero raddoppiare il prezzo medio del petrolio, portandolo a superare i 10 dollari a barile. L’aumento del costo del barile significava da un lato, una fetta più grossa per gli “sceicchi” (ovvero la casta semifeudale dominante nei paesi arabi, per lo più legata all’imperialismo U.S.A.) e dall’altra costi di produzione maggiori per gli europei e i giapponesi, più dipendenti dalle importazioni dalle importazioni petrolifere che non gli U.S.A. (le cui merci guadagnarono di fatto competitività nella concorrenza sul mercato mondiale). L’aumento del prezzo del petrolio (quintuplicato in due anni poi raddoppiato nei successivi 8-9 anni) concorse con il ciclo mondiale delle lotte operaie del periodo 1969-72 ad accrescere i costi di produzione dei capitalisti europei e giapponesi nel momento in cui finiva un trentennio di sviluppo e più diventava il bisogno del capitale ad abbassare i costi di produzione.
L’aumento del prezzo petrolio, fu voluto dall’imperialismo U.S.A. in combutta con l’Arabia Saudita, il maggior produttore mondiale di petrolio, approfittando della guerra tra Israele e i paesi arabi (principalmente Egitto e Siria) per indebolire i rivali imperialisti europei e giapponesi. Proprio in questo periodo, 1973/74 tutte le economie dell’area OCSE subirono una consistente caduta.
Iniziò cosi una fase di profonda ristrutturazione dell’economia capitalistica su scala mondiale che si sviluppò su due linee: la ristrutturazione degli impianti produttivi (con l’introduzione di macchinari più sofisticati e il “decentramento produttivo” nelle metropoli imperialiste e con massicci trasferimenti verso i paesi di “nuova industrializzazione”) e la ristrutturazione dei meccanismi della finanza mondiale (con enormi trasferimenti di capitali verso il cosiddetto “Terzo Mondo”, il cui indebitamento nei confronti dei paesi imperialisti crebbe a dismisura).
Le economie dei paesi Ocse subirono una seconda battuta d’arresto nel '80-’81 a causa di un nuovo aumento del prezzo del petrolio, reclamato dalle borghesie nazionali dell’Opec per contrastare la contrazione delle loro economie, nel quadro di una nuova flessione dell’economia USA manifestatasi già all’inizio del ’79. A metà del 1982 iniziò una fase di ripresa, sostenuta dalla riorganizzazione del sistema finanziario e del circuito internazionale delle Borse, che vide nel 1987 il sorpasso di Tokio su New York come centro finanziario mondiale (soprattutto per i capitali d’investimento all’estero), e che culminò con il crollo della borsa di New York nell’ottobre dello stesso anno (conseguente alla “bolla speculativa”, ovvero alla sopravalutazione fittizia delle azioni delle aziende quotate rispetto alla loro effettiva capacità di generare profitti nel ciclo produttivo).
Dall’inizio degli anni ’90 l’economia europea ha marciato a passo ridotto, mentre la disoccupazione – già accresciuta negli anni ’80 diventava “strutturale” (ossia un fatto permanente). In quegli anni l’economia giapponese ha conosciuto il peggior decennio degli ultimi 50 anni ed il sistema bancario è entrato in crisi, proprio per essersi sbilanciato troppo con investimenti a rischio nei paesi dei Sud-Est asiatico, in cerca di sbocchi per l’enorme massa di capitali amministrati.
Negli U.S.A. subito dopo la prima guerra del Golfo (1991) è iniziata una fase di relativa crescita dell’economia basata sulla comprensione dei salari, l’aumento dell’orario di lavoro e la riduzione dello “stato sociale”(6). Nel 1997 si è verificata la crisi finanziaria del Sud-Est asiatico (promossa dal ritiro dei capitali giapponesi a seguito della svalutazione dello yen rispetto al dollaro) a cui sono succedute nel 1998 le crisi finanziarie della Russia e del Brasile; a esse ha fatto seguito nel 1999 la guerra della Nato nei Balcani, che permise agli U.S.A. – attraverso le commesse militari – di contrastare temporaneamente il rallentamento dell’economia che si preannunciava.
Tutte questi fatti sono legati fra di loro da un unico filo conduttore nel senso che sotto i successivi cicli di crisi citati c’è un unico stesso “meccanismo generatore”.

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