«L’ufficio marketing entra anche nel merito degli articoli?»
Chiamiamoli articoli… Basta guardare i settori della cosmesi e uno si rende conto da solo.
«Questa riunione di cui parlavi in quale periodo si colloca?»
Fine anni Ottanta… All’inizio degli anni Ottanta c’è stata un’esplosione di queste cose. La Condè Nast si vendeva per queste cose, era noto. Però poi lo ha fatto anche la Rizzoli immediatamente imitata da Mondadori. Nessuno voleva perdere gli inserzionisti. Negli anni’80 l’usanza della marchetta è dilagata. Lo facevano tutti e veniva detto che bisognava omologarsi. Mondadori credo sia stata l’ultima a farlo.
«A te è stato chiesto di fare una marchetta?»
Sì, ma non in modo chiaro. Al punto che non lo avevo capito. Il direttore mi aveva chiesto di scrivere dello zucchero. Era il periodo in cui si faceva pubblicità affermando che “il cervello ha bisogno di zucchero”. Io avevo intervistato degli specialisti. Sulla base delle loro affermazioni scrissi che il nostro cervello ha bisogno di zucchero, è vero, ma questo non vuole dire che devi mangiare zucchero (saccarosio) perché il corpo lo ricava già dagli alimenti. Il direttore mi disse che il mio pezzo non era abbastanza a favore dello zucchero. Io le replicai:“Cosa intendi?”. “Che lo hanno chiesto loro!“. Le risposi che certe cose mi rifiutavo di farle e di non chiedermelo più.
Dopo quella volta mi è arrivato un elenco dall’ufficio pubblicità: prodotti “ su cui era urgente fare interventi di tipo redazionale“. Era un elenco lungo. Io andai dal direttore e le dissi:“Io le marchette non le farò mai“. E cestinai l’elenco.
Lei non obbiettò e non mi chiese più di fare marchette. I direttori che la seguirono non mi chiesero mai di fare marchette perché io lo dicevo subito e poi si sapeva in giro. A un certo punto ho assunto una linea molto rigida: non accetavo più regali, li rimandavo indietro. Non facevo più viaggi regalati, sponsorizzati o pagati da qualcuno. Tenete conto che un giornale di moda come quello per il quale lavoravo non aveva molto bisogno del mio settore perché vivevano soprattutto su moda e belezza.
«Altre tue colleghe si comportano così rigidamente, rifiutando regali e viaggi?»
Guardando nella casa editrice…Penso che ce ne siano alcune che scrivono argomenti del mio settore e cercano di barcamenarsi. Parlo di quelle oneste, poi ci sono quelle meno oneste…Ci sono direttori che sulle richieste più oscene dell’ufficio pubblicità puntano i piedi. Qualcuna c’è…
«Adesso che ci sono questi integratori dietetici, ti è mai stato chiesto di parlarne?»
Ho proposto di scriverne con senso critico. E passava. Purchè non uscissero le marche. Con le marche non passerebbe.
Quando scrissi l’inchiesta sul lavoro minorile citai alcune marche e mi fu chiesto di toglierle. Io dissi che allora avrei tolto la firma e il compromesso lo trovammo facendo citare le aziende da una persona intervistata. Puntai i piedi, e passò.
Poi ci fu un casino per il pezzo sulle merende. Il caporedattore mi disse che avremmo avuto dei problemi. Si parlava dei grassi saturi non evidenziati in etichetta. Era un pezzo interessante che metteva a confronto le merendine in commercio con quelle casalinghe, e si parlava della qualità diversa dei grassi. Un’azienda di cui si parlava ne usciva male…con le sue patatine piene di olio di palma. Veniva detta la verità e basta. Il direttore disse che in fondo non erano quelli i nostri inserzionisti. L’azienda invece chiamò il diretttore pubblicità, che diede una lavata di capo al mio direttore. Quando tornai in redazione mi dissero che era succeso un casino con il mio pezzo e che l’ufficio pubblicità aveva detto di smetterla di fare certi articoli perché “noi non siamo Altroconsumo”.
Ecco, questo era il ritornello “noi non siamo Altroconsumo”
«Che vuol dire “Non siamo dalla parte dei consumatori?”»
Proprio così. Poi il direttore mi parlò della contrarietà dell’azienda produttrice di patatine citata. Disse: “Non faremo più pezzi sul consumo”. Da allora in poi tutte le proposte che feci nel settore consumo vennero cassate.
«Quello non era un prodotto che veniva pubblicizzato dal vostro periodico, allora perché…»
Appunto. Ma un grande gruppo che non è inserzionista potrebbe sempre diventarlo, oppure fa pubblicità in altri periodici della casa editrice. Per esempio: qualche anno fa scrissi un servizio sulla questione degli antiretrovirali che servono a trattare i siero-positivi. Dopo due mesi il direttore mi disse:”Non scriveremo mai più articoli sui farmaci, anche se non abbiamo come inserzionisti le aziende farmaceutiche. Sono comunque inserzionisti del gruppo, o lo potrebbero essere, e molto spesso i farmaceutici hanno anche la parte della cosmesi…” in altre parole, non possiamo attacare le grandi aziende. Ovviamente anche in quell’occasione dissi che non ero d’accordo.
La cosa interessante è che l’ufficio pubblicità tende a dare la linea al giornale. Nel senso che tende a dire quale deve essere la filosofia del periodico.
I femminili, per esempio, non devono essere inquietanti. Devono rassicurare.
I direttori tendono a fare intendere che sia una loro linea, ma quando vedi che cambiano i direttori e le filosofie restano, capisci che l’intenzione viene dall’alto.
Un solo direttore diceva chiaramente:“Mi hanno detto che…”
È scontato che l’ufficio pubblicità sovrasti i direttori.
«Hai un episodio da raccontarmi nel quale si evidenzia questa influenza dei grandi investitori?»
Feci un servizio sulle acque minerali in cui dissi alla mia collaboratrice di fare un piccolo box sulle acque del rubinetto imbottigliate che vengono commercializzate e possono essere confuse con le acque di sorgente.
Il caporedattore si oppose, nonostante non ci fossero marche. Ma si trovò d’accordo con la mia controproposta di parlarne nell’articolo. E così fu: se ne parlò nel servizio dicendo che esistono acque di rubinetto (microfiltrate, eccetera) che vengono vendute al prezzo delle minerali. Citai anche le marche tra parentesi. Il caporedattore mi disse subito di togliere le marche. Così fu.
Uscito l’articolo il caporedattore mi disse che un’azienda che produce acqua microfiltrata di rubinetto avevano chiamato il direttore dell’ufficio pubblicità e gli avevano “fatto il culo” a causa di quel servizio e- aggiunse “avremmo dovuto stare più attenti”.
Le dissi di parlare per sé. Quello era un problema suo. Poi la nota azienda che produce acqua microfiltrata di rubinetto non era stata neppure nominata. Dissero che non gli piaceva il tono con il quale si parlava dell’acqua microfiltrata. Avremmo dovuto parlarne in termini non negativi. Incredibile.
“Sai, qui il prodotto è stato poco valorizzato”, disse.
«Sembrerebbe un meccanismo ricattatorio da parte di alcune aziende».
Un meccanismo arrogante, direi. Dipende dagli uffici pubblicità delle aziende. Questa arroganza viene poi riversata sui direttori.
In un altro servizio parlammo degli integratori per dimagrire. Feci intervistare quattro esperti del settore nutrizione e dietetica. Erano i migliori e attacarono violentemente gli integratori, ridimensionando molto la loro tanto pubblicizzata efficacia e dicendo che servivano solo a ch li produceva.
Consegnai il servizio al caporedattore e partii per le vacanze. Quando, di ritorno dalle vacanze, lessi l’articolo, quando il numero era già stato chiuso in tipografia. Era stato stravolto il senso: degli integratori per dimagrire non si parlava né bene né male, era un pastrocchio inutile, e i quattro esperti finirono tutti in ondo al servizio in una generica definizione comune di “consulenti“. Vennero tolte le loro dichiarazioni virgolettate e quindi, leggendo il servizio, si poteva pensare che l’articolo fosse stato ispirato dagli esperti.
«In base a ciò che dici pare che tu sia una delle poche che dichiara apertamente il suo dissenso…»
Sì, così apertamente siamo in pochi. Pochissimi.
«Tu, pur rispettando l’etica professionale, non vieni licenziata. Perché i tuoi colleghi non dovrebbero fare quello che fai tu, visto che di rischi non ce ne sono?»
Non è un comportamento diffuso perché ormai è passata l’idea che questa sia la norma. È una situazione curiosa: di certe cose non si parla all’interno delle aziende, tanto meno fuori. È come se ci fosse la consapevolezza che qualcosa di storto ci sia, in questo comportamento, ma, al tempo stesso, tutti lo mantengono inalterato. E quello che fanno tutti diventa la norma.
Per esempio, parlando on una collega che si occupa di cosmesi, lei dice chiaro e tondo che, anche se non ci fossero le marchette per i prodotti, lei dovrebbe comunque parlarne. E che gli inserzionisti del suo periodico sono anche i migliori produttori del mercato, quindi…
Eppure vi posso dire che per un giornale femminile ci sono argomenti tabù: per esempio un’inchiesta sulle malefatte di aziende note nell’ambito del settore tessile (per esempio sullo sfruttamento del lavoro minorile). Oppure, è quasi impossibile trovare un articolo che parli della vivisezione usata per testare le sostanze contenute nei cosmetici. Ancora meno probabile è che compaia un servizio sulla reale efficacia dei prodotti anticellulite, che è noto essere praticamente nulla. Anche solo nominare questi argomenti è come bestemmiare.

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