«Perché nei giornalisti non è scattato fin da subito qualcosa che tutelasse la loro dignità professionale?»
Perché il sindacato si è limitato a giudicare alcuni casi ma non ha mai denunciato la diffusione della marchetta come una malattina del sistema.
«Allora la contropartita per un giornalista qual è?»
C’è un andazzo generale per cui comunque ti viene regalato il viaggio – il così detto viaggio “merenda”. Si passa da un giorno a Parigi e visita della città by night alla settimana alle Maldive; il primo giorno viene fatta la presentazione del prodotto, il resto è vacanza. Questa è la prassi.
E poi c’è il regalo di Natale. Sono io la strana, lì dentro, che lì rimando indietro. Si guardano l’un l’altro per vedere i regali ricevuti. C’è una consuetudine in questo senso.
È una cosa gradita, accettata e poi dicono:“tanto non sono mica obbligata a fare qualcosa in cambio“.
In effetti succede che magari di quel prodotto non parlino. Comunque i regali grossi arrivano a casa. Il boom dei regali fu negli anni Ottanta. Grandi regali ai direttori…Soprattutto quelli dei periodici della moda.
Oggi si vedono ancora arrivare in redazione abiti firmati. Regali anche da centinaia di euro. Comunque dipende dai direttori. Ricordo un direttore che non ci teneva affatto, un altro invece faceva chiamare dalla segretaria…
«Per chiedere che cosa?»
Telefonate del tipo: “il direttore vorebbe sapere quanto costa quel bellissimo servizio di porcellana”.
Non era un modo di chiederlo in regalo, però…
Arrivava a casa quasi sicuramente. Non è detto che poi se ne parlasse sul giornale, sia chiaro. O che l’azienda che lo aveva donato lo pretendesse. Ma era un modo per mantenere buoni rapporti con i redattori dei settori strategici.
«È possibile che si facciano servizi per alimentare il bisogno di certi prodotti che vengono pubblicizzati nel periodico?»
Sì. Vengono fatti anche gli speciali, o i supplementi, spesso per ragioni pubblicitarie.
«Quindi il redattore sa fin da subito che deve parlare bene di quel prodotto, ovvero senza particolare spirito critico?»
Certo. I primi tempi lo dicevo ai colleghi: “Sentite, noi possiamo anche rifiutarci. E poi ci sono vari sistemi di “ribellione”: si può togliere la firma, si può migrare in un altro periodico…”. Non raccolsi molti consensi.
Ormai tutti i giornalisti sanno che la maggior parte delle entrate viene dalla pubblicità e che se un periodico non ha molta pubblicità non è sano. Due Più venne chiuso, nonostante fosse in attivo e vendesse ancora 170 mila copie. Ma non aveva molta pubblicità. E leggendo i suoi contenuti si può capire perché.
I miei colleghi sanno che almeno il 70 per cento delle entrate viene dalla pubblicità e che un periodico nasce facendo le indagini di mercato sugli inserzionisti e non sui lettori. Sanno anche che se ci sono tanti inserzionisti il giornale non muore. E che hanno più premi di produzione… E quindi c’è soltanto interesse nei confronti della pubblicità. Questo non succede nei periodici popolari, quelli che vivono sulle vendite.
«Non pensi che ci sia una sorta di rimozione collettiva, o di mortificazione repressa?»
Sì, c’è rassegnazione. Ci sono buoni giornalisti che ne sono consapevoli, e magari scrivono in settori meno condizionati dalla pubblicità.
«Ma non vienne mai rilevato il fatto che le vendite, invece, calano. Che i lettori si stanno disaffezionando?»
In una delle poche riunioni che facevamo sottolineai il fatto che c’era un netto contrasto tra gli interessi dei lettori e quelli degli inserzionisti e che, comunque, venivano fatti prevalere gli interessi degli inserzionisti. Questa cosa, dissi, prima o poi sarebbe esplosa. I lettori se ne sarebbero accorti. A questo tipo di discorsi alzavano tutti le spalle come a dire: “Cosa possiamo farci?” . A volte mi dicevano che io andavo contro i mulini a vento.
«E dove? In un quotidiano?»
Mah, a dire il vero credo che anche nei quotidiani il peso della pubblicità si faccia sentire.
Un paio di anni fa uscì la notizia che anche nei quotidiano la maggior parte delle entrate proveniva dalla pubblicità. L’articolo aveva un tono di euforia, anzi di entusiasmo nell’enunciare il sorpasso delle entrate per pubblicità sulle entrate per le vendite. Dalla mia esperienza credo che non ci fosse una buona ragione per esserne tanto felici.
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Da “La Repubblica delle marchette, Chi e come della pubblicità occulta” di Paolo Bianchi e Sabrina Giannini, Stampa Alternativa, 2004, 10 euro, 161 pagine.