BABEL (USA,2006)
Un colpo di fucile dà inizio alla vicenda, come la prima tessera
caduta di un domino: ne sono coinvolti una coppia di turisti
americani in viaggio per ritrovarsi, una famiglia marocchina, una
badante messicana clandestina e una giovane ragazza sordomuta
giapponese. E' un'umanità frammentata, quella di Inarritu, già regista
di 21 Grammi e Amores Perros. Un'umanità separata geograficamente,
sparpagliata tra Marocco, Stati Uniti, Messico e Giappone; separata
linguisticamente, da cinque lingue diffenti quali l'inglese, lo
spagnolo, l'arabo, il giapponese e il linguaggio dei segni. Ma
soprattutto è separata emotivamente, ciascun personaggio isola lontana
suo malgrado - e neanche i rapporti tra fratelli, tra moglie e marito,
tra padre e figlia sembrano ponti sufficienti a colmare queste
distanze.
Ma è comunque un'umanità che ci prova, che incespica e si rialza,
oltre le barriere dell'incomunicabilità e dell'isolamento della Babele
moderna. Sicuramente non ottimista quanto Crash, nè sporco e realista
quanto Amores Perros, Babel rimane comunque un ottimo film corale, con
grandi intuizioni nella regia e nel contenuto (l'utilizzo della nudità
come forma estrema di vulnerabilità e desiderio di comunione;
l'angosciante isolamento sensoriale; lo struggente bacio di
riappacificazione nel momento della malattia). L'unico modo di vincere
il dolore sembra alla fine semplicemente la vicinanza degli altri.
Quattro palle su cinque.