Se è difficile parlare del film in sè, diventa molto più semplice abbandonarsi al carisma di uno dei più feroci dittatori che la storia ricordi, Idi Amin, che nella sua Uganda mandò a morte più di 300.000 oppositori politici, interpretato da un Forest Withaker in odore di oscar. Carismatico appunto, in grado di affascinare un giovane medico scozzese approdato in uganda spinto in egual misura dal bisogno di avventura e da quello di rendersi utile, personaggio fittizio metafora dell'uomo bianco in generale ma anche degli ignari spettatori del film. Bianchi ed europei all'inizio entusiasti sostenitori del generale di umili origini, campione di boxe, che sognava per il suo paese un futuro di scuole, ospedali e sviluppo, man mano sempre più delusi dalla sua politica fino alla presa di posizione contro le brutalità di cui filtrava solo una piccola eco.
Ed ecco che del film come delle redini del suo paese si impossessa saldamente l'Amin di Whitaker, in una trasfigurazione totale, ed il ritratto di un uomo duro, feroce, spietato e sadico si sovrappone a quello dell'uomo allegro e affascinante, spiritoso e festaiolo, dando forma ad una figura inquietante allo stesso tempo attraente e spaventosa, con una lunga ombra che aleggia sui destini dei protagonisti e del suo popolo. E così questo strano individuo, che si proclamava ultimo re di scozia in virtù dell'odio, condiviso con gli scozzesi, per gli inglesi, prende vita in una interpretazione non facile, che rischiava di sfuggire di mano e trasformarsi in macchietta, in un film che non ha paura di sporcarsi le mani (a differenza di altri illustri predecessori).
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