"Sono all'incirca le sette di sera: in via Roma, all'altezza dell'edicola del Crocefisso, una trentina di giovani sono seduti avanti casa e discutono sui fatti del giorno. Improvvisamente arrivano tedeschi e fascisti, i quali, dopo aver bloccato gli accessi della via, obbligano i giovani a mettersi in fila e ad incamminarsi verso la villa Armarmi, in contrada Montecappone. Si pensa ad una delle solite retate di uomini di lavoro, ma non è così. Giunti alla villa, i giovani vengono rinchiusi nella brigata del colono Massacci, perquisiti, minacciati, bastonati e rimessi in libertà: tutti, meno sette, che una spia di Fabriano (una donna?) qualifica come partigiani.
Contro questi sette si accanisce la rabbia nazifascista. Vengono seviziati e torturati a lungo: da lontano si odono le loro grida di dolore e di implorazione. Riconosciuti come partigiani, vengono condannati a morte, senza processo. Agli abitanti della villa e della casa colonica sono impartiti ordini perentori: "Nessuno esca ed ogni porta e finestra sia serrata!".
Quando i sette vengono spinti in un vallone a circa duecento metri dalla villa, sono irriconoscibili per le violenze subite. Poi il tragico epilogo: "una scarica di mitraglia ed i corpi cadono dalla ripa, rotolando. Qualcuno si contorce, tra gli spasimi estremi chiama la mamma, invoca Iddio". Allora vengono finiti "coi pugnali, coi calci dei fucili: negli orecchi, negli occhi, sui petti". Più tardi, parenti e amici, accorsi sul posto, provvedono alla loro sepoltura. Qualche mese dopo i resti mortali saranno solennemente trasferiti nel Famedio; sul posto sarà collocata una lapide. Dei sette fucilati, cinque sono jesini: Armando e Luigi Angeloni muratori, rispettivamente di 25 e 18 anni, Francesco Cecchi e Alfredo Santinelli, apprendisti, diciottenni, e Mario Saveri di 23 anni meccanico. Avevano aderito ai Gap di via Roma. Gli altri due sono Enzo Carboni di S. Eufemia di Aspromonte (Reggio Calabria) e Calogero Grasceffo di Agrigento, entrambi ventenni ed entrambi carabinieri".