Siamo qui per sottoporvi il caso commovente di un papà.
Un buon papà che vede il proprio figliolo, portiere delle giovanili
della Lazio, costretto a fare la riserva o, per usare il linguaggio
non privo di amarezza dell’uomo, «a riscaldare col
suo riverito culo la panchina». Tutto questo in virtù di un
complotto che lui, il padre, cerca di sventare con l’unica arma
concessa a un genitore indifeso: il telefonino. Chiama
una, due, tre volte il presidente (intercettato) della Lazio per
parlargli male del portiere titolare, quell’usurpatore, e per
denunciare il dramma del suo pargolo «discriminato e trattato
a calci in culo da gentarella da quattro soldi che tu hai
messoa rappresentarela gloriosa maglia biancoceleste».
Nonfatevi fuorviare dallo stile vivace. L’uomo è quasi epico
nel suo incedere telefonico: ammette di essere «su de giri
» e di non sopportare un’ingiustizia simile «come lazzziale
ecomepadre». Nel suo sfogo si riconosceranno tutti quei padri,
anche non lazzziali, che la domenica aggrediscono l’allenatore
che non fa giocare (apposta) il figlio loro e durante la
settimana azzannano la maestra che ha osato mettergli un
quattro (immeritato) sul registro. Certo, in una delle telefonate
il padre lazzziale si spinge a chiedere «rispetto per gli
amici» e a minacciare sfracelli in conferenza stampa. Ma va
capito: è solo un povero papà che cerca di proteggere la progenie.
Un’impresa nobile, per la quale egli non esita a sacrificare
la lingua italiana, mezza batteria del telefonino e la sua
stessa lazzzialità, annunciando al presidente che non andrà
mai più allo stadio. Che uomo. Che padre.
E pensare che è Cesare Previti.
Gramellini