Una provocazione: Dio esiste? E se sì, perché? Ha delle ragioni che valgano come prova della sua esistenza?
"Ovviamente non ho altra scelta che accettare la sua provocazione: cercherò pertanto, anche se non sarà facile, di sintetizzare in poco spazio e in termini elementari quella che a mio avviso è la più rigorosa fra le “prove dell’esistenza di Dio” che si possono desumere dalla lettura e dalla meditazione dei classici della metafisica di trascendenza, una prova alla cui completa esposizione e illustrazione è peraltro dedicata quasi tutta la terza parte – che è la più lunga – del mio volume. Consideriamo dunque una pluralità di realtà individuali appartenenti al medesimo genere o alla medesima specie: certamente potremo e dovremo dire che le differenze specifiche – nel caso del genere – o le note individuanti – nel caso della specie – determinano o concretizzano la “natura” o “essenza”, di per sé ideale o astratta, comune a quei soggetti e non esistente in tale sua idealità o astrattezza se non come contenuto concettuale della nostra mente. Ora, tuttavia, consideriamo quei medesimi soggetti semplicemente in quanto realtà o “enti”: il concetto di essere è appunto il più universale di tutti perché non lascia nulla fuori di sé (o, se si preferisce, lascia fuori di sé solo il nulla). Anche di tale concetto dovremo affermare che è qualcosa di ideale o astratto, destinato a concretizzarsi nella pluralità degli enti sensibili i quali sarebbero gli unici candidati a riempire l’intero spazio della realtà? Evidentemente no, perché stavolta, dicendo in conformità al modello precedente che ciò che differenzia quei soggetti l’uno dall’altro è qualcosa che determina o specifica o individua una ratio entis di per se stessa generica e indeterminata, verremmo a dire che le differenze fra gli enti non cadono formalmente sotto la medesima ratio entis. Ma questo non è possibile: differentiae entis sunt ens (altrimenti si ridurrebbero a nulla!), il che comporta che l’essere non è un genere, ossia che non è un concetto univoco ma analogo, dato che, diversamente da tutti gli altri concetti, esprime sia ciò che le cose hanno in comune sia ciò che esse hanno di diverso. L’essenza che è propria di ciascun ente (ente = sintesi di essenza ed essere) rappresenta dunque non già una specificazione dell’essere come tale, ma una sua limitazione o contrazione: essa propriamente dà la misura, o la gradazione, della partecipazione all’essere che è costitutiva di ogni realtà finita. Ma l’analogia si dice in riferimento a un primo, la limitazione (formale o qualitativa, non meramente spaziale o quantitativa) si dice in riferimento a ciò che limitato non è. Dunque: al termine “essere” deve corrispondere un Essere sussistente realmente distinto dagli enti, ché se gli corrispondesse soltanto una natura essendi immanente agli enti e provvista di una unità esclusivamente ideale sarebbe univoco e se non gli corrispondesse nulla sarebbe meramente equivoco (ci troveremmo allora in una situazione nominalistica, ma il nominalismo è una posizione gnoseologicamente insostenibile, che ha subìto ripetute e persuasive confutazioni lungo l’intero arco della storia della filosofia). Insomma, l’unità concettuale suprema (l’unità ideale del Tutto) rivela – pena la contraddizione, pena la sua vanificazione proprio in quanto unità concettuale – di essere sospesa all’unità reale del Primo Essere; il trascendentale rivela di essere sospeso al Trascendente".
Dario Sacchi
http://canali.libero.it/affaritalian...0108.html?pg=2
Non ce l'ho fatta a leggerla tutta. Chi è capace di arrivare fine alla fine?
Ma come cacchio scrive? Che 2 palle