Il problema della disoccupazione non si risolve aumentando l'occupazione, perché alla lunga ci si ritroverà sempre nella situazione di partenza. Quando realmente si comprende il meccanismo alla base, non c’è alcuna ragione che non consenta di dare lavoro a tutti. Le risorse non sono un limite in questo immediato momento e teoricamente sarebbe possibile produrre dieci volte tanto. Ma allora che cosa ci impedisce di farlo? Perché non abbiamo il problema opposto: troppo lavoro e insufficienza di manodopera disponibile sul mercato. La macchina sociale non è così complicata come sembra. Un paese di fannulloni occupati resterà povero, per forza di cose, e la disoccupazione, prima o poi, si farà avanti; un paese di disoccupati dove le macchine fanno tutto, invece, disporrà di risorse e ricchezza per tutti. Si tratta di estremi irraggiungibili, che però danno l’idea di quale sia il fattore determinante dell'economia: non il lavoro, ma la produzione. Quando c'è il secondo può esserci anche il primo, ma quando c'è solo il primo, il secondo non è garantito. In presenza di produzione elevata, la disoccupazione resta una mera illusione, facile da dissolvere. Potremmo permetterci di far lavorare di meno, di occupare e pagare di più.
Sostituire cento persone con le macchine non crea disoccupazione, ma crea una risorsa di lavoratori in più. Ostacolare, invece, la produzione con un’errata gestione monetaria, una burocrazia lenta e dispersiva, o un’istruzione scadente, sono tutti fattori che possono diminuire veramente l’occupazione e sfociare nel precariato.
Un’impresa motivata all’investimento è il motore dell’economia ed è ciò che crea nuova occupazione. Se la produzione fosse abbondante, per quale motivo non dovremmo poter avere soldi a sufficienza per acquistare i prodotti in commercio? Perché qualcuno dovrebbe restare povero? Non ci sarebbe un motivo concreto, al di là di una politica monetaria scorretta, una burocrazia lenta e macchinosa, un’istruzione scadente o un sistema sociale in grado di sfavorire determinate categorie sociali.
L’ultimo, in effetti, è il punto dolente di un’economia impazzita come la nostra, in balia della globalizzazione, del liberismo e dello sfruttamento feroce; e il liberismo, in realtà, a parte il nome, ha ben poco di liberale.
Un lavoro magari si trova, ma sottopagato. Oppure il lavoro c’è, ma viene trasferito all’estero. Allora il problema non è più locale, interno al singolo stato, ma globale.
Il male è così radicato che persino una politica protezionistica sarebbe fallimentare, pur restando valida in un mercato “meno liberalizzato”; oggi non farebbe che tagliare fuori paesi già deboli, dal selvaggio gioco internazionale. La piaga sociale non può più essere sanata dall’interno, ma soltanto assecondata e convogliata. Quindi come ridare lavoro ai lavoratori? Non dovete fare un atto di fede in ciò che vi dirò, ma semplicemente guardare le statistiche, e vi renderete conto che quando i tassi d’interesse scendono, l’occupazione aumenta sempre. Perché lo stesso non dovrebbe accadere abbassando le tasse? Ma senza un ritorno di qualche tipo nelle casse dello stato, non sarebbe un’operazione sostenibile. Tuttavia, non si può pensare a un rilancio dell’economia quando un imprenditore si vede costretto a pagare tre quarti del reddito in tasse. Non si può nemmeno concepire una buona politica economica, senza una politica interna in grado di favorire gli investimenti rispetto alle importazioni, quindi nuove assunzioni e nuovo reddito per ripagare lo stato delle tasse tolte. Ma bisognerebbe anche evitare che gli investimenti siano diretti al risparmio.
Uno stato che produce non ha nessun motivo di conoscere i colori opachi della miseria. Soltanto una profonda ingiustizia sulle pari opportunità dei cittadini può mantenere un simile assetto sociale. Laddove sia soltanto possibile crescere con lo scambio di favori illeciti, con lo spalleggiamento, il nepotismo o l’inganno, nessuna riforma monetaria sarà mai in grado di sradicare totalmente il problema della povertà. Sinché non sarà garantita a tutti la possibilità di crescere, non ci sarà giustizia sociale. Aborro ogni principio di uguaglianza totale e assoluta, basato sul ricevere senza dare, sostengo invece un’uguaglianza nelle opportunità, dove anche il mendicante, se vuole, ha una strada da seguire verso la prosperità.
Non ci sono governanti totalmente giusti o sbagliati, non ci sono politiche completamente sbagliate o completamente giuste, ci sono soltanto politiche che aumentano il disagio sociale e l’occupazione; e poi ci sono politiche che lo diminuiscono. La politica che danneggia l’impresa o che crea lavoro senza creare produzione, è una di queste.