Settimana scorsa avrebbe celebrato il suo compleanno. Sessantre estati. Ma non lo sapeva. Non se lo ricordava perché non poteva farlo. Quel non-luogo dove non c’è un presente, né un passato né un futuro è oggi l’albergo della sua mente. Il corpo invece è ricoverato in un ospedale in provincia di Pavia. Una trombosi ha causato un arresto cardio-circolatorio. L’infarto ha causato il coma.
Questa mattina, verso le 5:42 in Italia, sorgeva il sole per la ventesima volta da quando la madre di un caro amico è entrata nell’anticamera della morte o della vita. Lui dice che “prima o poi a molti di noi tocca affrontare il momento della partenza dei nostri cari. A me è toccato adesso. É una prova che dimostra che stiamo crescendo”. “Io ci spero”, dice con voce spezzata. “ci spero tantissimo. Ma ci credo poco”.
Le sue funzioni biologiche sono in ordine, sostengono i dottori. Fegato, polmoni e reni, lavorano perfettamente. Eppure il coma persiste. I medici considerano come normale il risveglio nei 3-4 giorni successivi. Venti tramonti non sono una buona notizia. Il mio amico è preoccupato anche per suo padre “lui ci crede più di tutti noi. Ma se le cose vanno male, sono proprio quelli come lui che pagano il prezzo più alto”.
Le persone lottiamo contro le avversità della vita quotidianamente eppure mai ci preparano abbastanza per affrontare quelli che sono i colpi piú probabili: la malattia dei nostri cari.
Beffardamente, la sua speranza è alimentata dalla stessa condizione dalla quale sua madre sta lottando per uscire. Un movimento degli occhi, una smorfia di dolore o di piacere, un sorriso.
Nel coma vigile, o stato vegetativo, il paziente puó mostrare alcuni comportamenti che possono essere il prodotto di un parziale stato di coscienza, come il digrignamento dei denti, il singhiozzare, il sorridere, o il piangere. Quanto più tempo passa sua madre con questi segni, meno speranze sembrano esserci per uscirne.
Una beffa crudele. Ma d’altronde, la speranza è l’ultima a morire.