incollo una traduzione da un colonnista de ElPais.
forse, non sempre, la colpa è del giornalista...
Le catastrofi con molti morti offrono un grande scenario per le miserie dei mezzi di comunicazione. Sono miserie legittime e inevitabili. Il proprio giornalista ne è di solito cosciente, ma deve fare il suo lavoro. Che, inizialmente, consiste basicamente nell’ostacolare. C’è gente che si occupa di salvare i feriti e di trasportare i cadaveri, ci sono medici che cercano di salvare vite, e parenti che attendono con un'angoscia indescrivibile. La missione del giornalista consiste nell’ottenere un dato, una frase, anche se ció suppone far ritardare un istante il trasferimento di una vittima. Non è un bello spettacolo. Fa niente se uno è in barella: se è a un tiro di schioppo, gli si avvicina il microfono. Una volta, dopo un incendio forestale con vittime, vidi un giornalista radiofonico che insisteva nello strappare un’intervista a un morto. Suppongo che il giornalista lo riteneva vivo, ma non ci metterei la mano sul fuoco. Si lavora in un ambiente di isteria ed la lucidità arriva soltanto quando l'urgenza rifinisce.
A volte, le squadre di soccorso ed i servizi medici rimangono schifati dall'avidità degli avvoltoi della stampa. È vero: in quella circostanza, il reporter fa il lavoro della bestia carnivora (la traduzione letterale sarebbe saprofaga). Il servizio pubblico è così, signori. E voi volete le informazioni immediate. Vi afferrate al televisore o al computer e pretendete supere quanta gente è morta, e se possibile con l'abbondanza di particolari terrorifici. Tutte le regole vengono sospese. Il diritto dei familiari all’intimità? Non c’è diritto che tenga: li vedrete gridare, pronunciando frasi spezzate a un microfono, assaliti nel momento in cui sono più fragili.
Non incúlpate il giornalista. Fa il suo lavoro, contempla scene che durante anni popoleranno i suoi incubi, vede da vicino la morte e il dolore che la morte provoca, aiuta quando gli è possibile. Se è coscienzioso e rimane nella sua postazione fino alla fine, quando il dolore se n’è andato, verifica che persino nelle peggiori tragedie si infila il sarcasmo. Nel campeggio Los Alfaques, quasi 30 anni fa, morirono carbonizzate 215 persone. Ci vollero molte ore per retirare i cadaveri neri e rigidi. A qualcuno venne in mente di portare del cibo alle squadre di socorros ormai esauste: la cena, che nessuno toccò, consisteva in pollo arrosto.