Gli dissero addio in quarantamila, in un terso sabato di ottobre visitato dallo scirocco, quindici anni fa. La Heritage Hall Marching Band, convocata da New Orleans per espresso desiderio dello Scomparso, suonava: “What a friend we have in Jesus”, un blues struggente. Tra pianti accorati, mesti abbracci e invocazioni di “Paolo! Paolo!”, nelle strade attorno alla chiesa di Santa Teresa del Bambin Gesù, in Albaro, si celebrò il trionfo in memoriam di Paolo Mantovani, presidente dell’U.c. Sampdoria dal 3 luglio 1979 al 14 ottobre 1993, giorno della sua scomparsa. L’aveva guidata per 14 anni, tre mesi e undici giorni, trasformando la piccola, simpatica Sampdoria che non aveva vinto nulla, in una potenza europea: uno scudetto vinto nel 1990/91, una coppa delle Coppe, una Supercoppa di Lega italiana, tre coppe Italia col corollario di cinque finali perdute, due in Europa e tre in Italia. La Coppa dei campioni, allora si chiamava così e partecipavano soltanto i campioni nazionali, era sfiorita nel tempio di Wembley, il 20 maggio 1992. La “bomba” scagliata da Ronald “Rambo” Koeman infranse un sogno e spianò la strada della Juve per Vialli; ma non cancellò la Samp d’oro, costruita amorosamente, pezzo per pezzo, da Paolo Mantovani, che l’aveva raccolta agonizzante in serie B. Anche Riccardo Garrone ha salvato in articulo mortis la Sampdoria e ha riportato la ballerina a danzare in Europa. Ma niente è uguale se non a se stesso.

Non fu soltanto un funerale, quel giorno si recitò il de profundis per un calcio a dimensione d’uomo, non ancora sprofondato nell’orgia del business televisivo e del business a tutti i costi. Un calcio che andava fiero delle sue bandiere: Beppe Baresi, Ciro Ferrara, Giuseppe Giannini, Beppe Bergomi, Roberto Mancini, e i sentimenti non erano relegati in fondo al cassetto dell’anima. Alle migliaia di tifosi sampdoriani in lacrime, quel giorno si mischiarono tanti tifosi del Genoa e la squadra al completo, guidata dal suo presidente, Aldo Spinelli, che con Mantovani aveva lealmente duellato sul campo di gioco, combattendo però fianco a fianco le battaglie strategiche, come quella per difendere lo stadio minacciato dalle ruspe di Italia ‘90. Anche Garrone e Preziosi, oggi, sono alleati per fare che cosa dello stadio Ferraris francamente non si è capito. Ci sono questioni sulle quali veramente l’unione fa la forza ed è sciocco procedere divisi. Dopo la morte del presidente, sopravvenuta per un cancro ai polmoni, il Secolo XIX pubblicò pagine e pagine di messaggi inviati dai lettori di ogni fede calcistica, dagli agnostici che avevano visto in Paolo Mantovani il simbolo della riscossa di una città umiliata, piegata del declino industriale e dalla crisi del porto al ruolo della comprimaria. Quella Sampdoria diede un segnale e lo compresero anche i tifosi del Genoa tuffandosi con i sampdoriani nel comune lavacro che annullò, per qualche giorno, antiche divisioni, le stesse che tormentano Genova e le mettono il piombo nelle ali. Anche di questo “miracolo” civile fu capace Paolo Mantovani. «I nostri nemici non sono a Genova… i nostri nemici stanno a Firenze, a Milano a Torino», aveva vaticinato. «Sono quelli che hanno paura che noi si finisca per scalzarli in classifica, prima o poi. Perché sanno che li scalzeremo». Rispetto: degli avversari, degli arbitri delle regole: era questa la sua Bibbia. Il Genoa? Un’avversaria, non il nemico da cancellare.

Aveva domato una tifoseria inquieta, propensa a scavalcare le griglie e farsi giustizia sommaria da sè. Lo ricordo a Cremona, al termine di un epico quarto di finale di Coppa delle Coppe contro la fortissima Dinamo Bucarest (marzo 1989). A squadre già negli spogliatoi, un gruppetto di ragazzi festanti si era catapultato sul prato, sfogandosi con gioiose capriole. Al bar dello stadio “Zini”, Mantovani ci raggelò: «Soltanto le bestie brucano l’erba. Se ai tifosi dai un dito ti prendono un braccio». Aveva ragione. Non scese mai a patti con gli ultras. Semplicemente, li avvertì: “Se fate casino, vendo la Sampdoria”. Assunse come magazziniere della prima squadra Claudio Bosotin, il capo degli Ultras, e la Sud si trasformò in una congrega di anime allegre. Finì per piegare gli esagitati che smisero di festeggiare con invasioni di campo, lanci di bengala, fumogeni. «Cori come “devi morire” mi procurano dolore vero», chiosava, rattristato. Andava in estasi quando la Sud cantava a squarciagola le canzoni dedicate a Mancini (“Tu che sei un campione e ti chiami Bobby-gol. Facci un facci un gol, facci un gol, di tacco facci un gol!”) a Vialli (“Luca Vialli-Luca Vialli-Luca Vialli alè alè! Noi ti amiamo e t’adoriamo tu sei meglio di Pelè!”) ad Attilio Lombardo, diventato per la gente Popeye, Braccio di ferro. E via incitando Pagliuca, Pari, Salsano, Cerezo, Vierchowod lo Zar, che Maradona definì l’Uomo Verde. Tra i ricordi più cari Mantovani conservava la lettera della polizia di Londra che si congratulava per il comportamento esemplare dei 30 mila tifosi sampdoriani, nell’infausta giornata di Wembley. La Sampdoria vinse due volte la Coppa Disciplina. Per lui valeva lo scudetto.

Paolo Mantovani riposa nel piccolo cimitero di Bogliasco, accanto al centro di allenamento che, in convenzione col Comune, ha garantito alla Sampdoria fino al 2025. La gente sale a portargli un fiore e a dirgli ancora una volta: grazie, presidente.

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