Il famigerato stile assiro-milanese non è mai stato così splendente. È un incrocio fra Babilonia e Gotham City, un Vittoriano con i binari (che poi sono l’unica cosa che manca in quello vero), il super-mega-ultra kitsch fatto cemento. Di tutto, di più: erme e urne, bassorilievi e affreschi, mosaici e marmi, atrii muscosi e fori cadenti, atleti nudi probabilmente gay tipo Foro Italico e inquietanti doccioni da Notre-Dame rifatta da Viollet-le-Duc. E poi cavalli e soldati, scudi sabaudi con regolamentare scritta Fert, spettacolari arcate in acciaio, vedute di Firenze e di Roma, eroi del Carso e camicie nere (ma l’unico Mussolini sopravvissuto al ribaltone è accuratamente oscurato) e perfino un Padiglione Reale lugubremente elegante per le attese dei Savoia in transito. Manca solo la sfinge. Insomma, è la Stazione Centrale di Milano, già a lungo biasimata come esempio di insano gigantismo retorico-fascista-meneghino e oggi rivalutata non solo nel gusto dei più (però già per Frank Lloyd Wright, non un cumenda qualsiasi, era «la stazione ferroviaria più bella del mondo») ma anche dai restauri che hanno riportato all’antico splendore (splendore?) questo monumento all’Eccesso. Già: nell’orgia di superlativi per il debutto dell’alta velocità sulla Milano-Bologna in un’ora e spiccioli, scioperi permettendo, nessuno ha fatto caso alla contemporanea inaugurazione dei rifacimenti della povera vecchia Centrale, uno di quei posti dove tutti passano e che nessuno guarda. Al massimo, la si vede. E magari ci si chiede, come Marco Paolini: «La prima volta a Milano C. ti domandi: ma è Centrale o Cattedrale?». Però sappiamo che pochi luoghi sono rivelatori come le stazioni. Dimmi dove vai a prendere il treno e ti dirò in che società vivi. E allora ecco il neogotico fuligginoso dell’Inghilterra imperiale tutta Bibbia & vapore (la londinese St. Pancras, Edimburgo, addirittura Bombay dove la stazione sembra una Westminster tropicale). Ecco la solidità borghese dell’Hauptbahnhof di Zurigo, con i buffet da superfondute della domenica e i monumenti agli ingegneri dei trafori. Ecco il déco da Età dell’Opulenza dalla Grand Central Station di New York, dove ci si aspetta sempre che si materializzi un Vanderbilt o un Astor. Ecco il kolossal teutonico della stazione alsaziana di Metz, oggi purtroppo mascherato da un rifacimento (francese) minimal-chic, ma che il Grande Stato Maggiore del Kaiser aveva voluto enorme per permettere la mobilitazione rapida richiesta dal piano Schlieffen (ottimo di suo, ma rovinato nell’applicazione dal Moltke junior). E allora la Stazione Centrale di Milano diventa l’emblema di un Paese la cui realtà non è mai all’altezza delle ambizioni, di una povera Patria sempre in bilico sul vorrei ma non posso. Già i lavori di costruzione furono di durata biblica (o, appunto, italiana): prima pietra posata nel 1906, inizio effettivo nel ’25, inaugurazione nel ’31. Ma poi la stazione nacque fascistissima, emblema di un’Italia che si voleva imperiale, guerriera, volitiva, mentre sappiamo invece com’era e come, soprattutto, andò a finire. Però anche oggi questa discrepanza fra aspirazioni e realizzazioni, fra voglie e possibilità, fra sogno e realtà resta. Perché sì, c’è l’Alta velocità, ma ci sono anche le tradotte dei pendolari o gli espressi in arrivo dal Sud con ritardi di tre ore. Per non parlare poi del fatto che anche nell’evo dell’Eurostar non è detto che la puntualità sia assicurata: per esempio, poniamo, il giorno di Santo Stefano l’ES9664 delle 14,43 per Torino è partito con mezz’ora buona di ritardo mentre, richiesto d’informazioni all’apposito baracchino, lo sventurato targato Fs rispose: «Se ne avessi, gliele darei». Certo, sì, ci sono i nuovo pannelli elettronici che fanno tanto aeroporto, però nessuno ha ancora pensato di rimuovere i patetici orologioni a lancette fermi alle 10,52 dal tempo del primo centrosinistra. E poi la Stazione Centrale dovrebbe diventare, come lo sono tutte quelle europee, anche un grande centro commerciale: 30 mila metri quadrati di shopping, fanno sapere dalle Grandi Stazioni, già prenotati da Feltrinelli, Benetton, Nike e perfino dalla Coop. In effetti, gli enormi murales Dolce&Gabbana danno anche adesso una nota di glam modaiolo tipicamente milanese. Però resistono, per la gioia di chi ama le buone cose di pessimo gusto, gli incredibili tabaccai con i folli souvernir che ormai si trovano solo qui, i piattini con Padre Pio, la gondola con il centrino, la torre di Pisa con il lumino, il Duomo in finto alabastro. Da qualche parte, nonna Speranza si rassicura: le stazioni cambiano, l’Italia no.