Baz Luhrmann appartiene a quella categoria di registi che o li si ama incondizionatamente o li si odia senza scampo. Io lo amo, alla follia. E come sempre resto ammaliata dalla potenza visiva e visionaria delle sue opere.
Questa volta si torna alle origini, le sue e quelle dei suoi protagonisti, quelle di un paese nato come colonia penale e rimasto nell'immaginario della madrepatria un luogo incivile popolato da selvaggi.
La storia, al limite del banale se non almeno del già visto, è quella di un amore incondizionato che la Kidman, nei panni di una aristocratica inglese, impara a nutrire per una terra arida e inospitale ma capace di ricchezze e rigogliosità inaspettate, per un uomo duro a cui non piace sentirsi legato ma che sa essere capace di sacrificare tutto per quello a cui tiene e per un bambino che non è nè bianco nè nero e quindi non è ben accetto in nessuno dei due mondi con cui è in contatto. Su tutto, lo spettro della seconda guerra mondiale che incombe sul continente.
La resa invece è grandiosa, aiutata da panorami che tolgono il fiato, da una scrittura ritmata e ricca di humor. Ed è subito epopea, costruita sugli spazi sterminati, sull'amore al di fuori delle convenzioni sociali, sulla vibrante denuncia della rieducazione forzata subita dai bambini meticci strappati alle famiglie arborigene, sulla devastazione che porta la guerra e sulla speranza che dalle macerie rinasca la vita. Il Via col vento australiano sì, non una copia sbiadita ma un omaggio ricco di vita di sentimenti di passioni.