Walt Kowalsky, protagonista di “Gran Torino” è Clint Eastwood nel film della sua vita.
L’anziano Walt, l’ultimo dei mohicani bianchi in un quartiere ormai tutto orientale, quando mima con indice e pollice una pistola puntata soffiando “Bang” dalla bocca , è il Biondo di Sergio Leone, è l’ispettore Callaghan, è lo stanco cowboy de “Gli Spietati”, il rude sergente di “Gunny”, è il duro di mille film nel suo personaggio.
E quella finta pistola è il suo addio al mito Eastwood, e la consacrazione definitiva dell’Eastwood grande raccontatore dell’America minore, con quei suoi film lineari, senza fronzoli, eppure mai banali. Un Eastwood che prende atto che l’America di Walt Kowalsky, quella delle Ford Gran Torino, è finita per sempre e che si può passare il testimone ad altri americani, non importa di che razza.
Potrei scrivere di questo film quello che già scrissi su Eastwood per “Changeling” o per “Million Dollar Baby”, ma questo film ha ancora tantissimo da dire…
E’ una splendida storia di conoscenza, di formazione e di amicizia, è l’elegia del rapporto tra maestro e allievo, racconta di coscienza e di fede, di ricordi, di culture diverse, di violenza e di speranza.
Walt Kowalsky è forse il più bel personaggio che Eastwood ha portato sullo schermo, c’è di tutto in lui, dalla cattiveria esplicita alla sottile ironia, dalla franchezza più sfrontata alla ritrosia pudica.
Nella vasta gamma di sensazioni umane che suscita il film, quella per me più emozionante è stata rivedermi nel giovane Tao, adolescente e lavoratore estivo in lavori pesanti e ingrati, in compagnia di omaccioni scafati e rotti a tutte le fatiche, burberi rudi e di poche parole, ma che mi hanno insegnato tanto sulla vita e sugli uomini, anche se sono cose che capisci poi lentamente, nel tempo.
E’ al loro ricordo che dedico queste righe.
Al vecchio Clint un grazie e i complimenti, perché è un grande che ormai non sbaglia un film.
Globale *****