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Discussione: Schifani

  1. #1
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    Schifani

    Minacce di morte dalla mafia ( :master: ) e un pentito che lo accusa di aver incontrato un boss.
    Che abbia frequentato mafiosi in passato pare certo, era pure in società con 2 che vennero arrestati per mafia.
    Che abbia dei compagni poco raccomandabili, vedi Dell' Utri, è certo.
    Che sia purtroppo presidente del senato, è certo.

    Cosa c'è veramente sotto non è certo, io un' idea ce l'ho.
    Secondo voi?

  2. #2
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    Tra poco pubblicherò due articoli che riguardano il sig. Schifani
    Lo Stato deve dare ai cittadini, come diritto, ciò che la mafia dà come favore.
    Carlo Alberto dalla Chiesa

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  3. #3
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    Ecco il primo articolo

    Schifani incontrava Graviano, l’uomo delle stragi e dei contatti milanesi
    IL PENTITO SPATUZZA AI PM SUI RAPPORTI TRA IL CAPOMAFIA E BERLUSCONI: “L’HO VISTO”. IL PRESIDENTE DEL SENATO: FANGO


    Il presidente del Senato Renato Schifani, quando era ancora un semplice avvocato civilista e assisteva molti imprenditori legati a Cosa Nostra, aveva rapporti diretti con Filippo Graviano, uno dei due boss di Brancaccio che organizzarono ed eseguirono le stragi di mafia del 1992 e 1993. A rivelarlo è Gaspare Spatuzza, il collaboratore di giustizia che sta riscrivendo la storia politica mafiosa di quella stagione di sangue e tritolo. Davanti ai pm di Firenze prima e a quelli di Palermo poi, il pentito ha detto di essere stato testimone diretto di un incontro tra Filippo Graviano e Schifani. Nei suoi verbali il nome della seconda carica dello Stato viene fatto quasi per caso quando Spatuzza affronta il capitolo dei legami tra il boss, suo fratello Giuseppe e Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. A quel punto il pentito dice: “Ho cercato nella mia memoria di collocare i rapporti di Filippo Graviano su Milano. In proposito preciso che Filippo talvolta utilizzava l’azienda Valtras dove lavoravo, come luogo d’incontri. Accanto a questa c’era il capannone di cucine componibili di Pippo Cosenza dove pure si svolgevano incontri, dove ricordo di avere visto diverse volte la persona che poi mi è stata indicata essere l’avvocato del Cosenza. Preciso che in queste circostanze questa persona contattava sia il Cosenza che il Filippo Graviano in incontri congiunti. La cosa mi fu confermata da Filippo a Tolmezzo allorquando commentando questi incontri Graviano (all’epoca non latitante, ndr) mi diceva che l’avvocato del Cosenza, che anche io avevo visto a colloquio con lui, era in effetti l’attuale Presidente del Senato. Preciso che anche io avendo in seguito visto Schifani sui giornali e in televisione l’ho riconosciuto come la persona che all’epoca vedevo. Cosenza è persona vicina ai Graviano con i quali aveva fatto dei quartieri a Borgo Vecchio, ben conosciuta anche da Giovanni Drago” (un altro pentito, ndr).

    L’accusa è politicamente gravissima. Non appena l’Ansa ha diffuso la notizia, Schifani pallido come un cencio ha reagito minacciando querele: “Non ho mai avuto rapporti con Filippo Graviano e non l’ho mai assistito professionalmente. Questa è la verità. Sia chiaro: denuncerò in sede giudiziaria, con determinazione e fermezza, chiunque, come il signor Spatuzza, intende infangare la mia dignità professionale, politica e umana, con calunnie e insinuazioni inaccettabili. Sono indignato e addolorato. Ho sempre fatto della lotta alla mafia e della difesa della legalità i valori fondanti della mia vita e della mia professione. I valori di un uomo onesto”

    Schifani però non può smentire, come già rivelato da Il Fatto quotidiano, di aver avuto tra i propri clienti Giuseppe Cosenza, un imprenditore poco più che sessantenne al quale, tra il 1996 e il 1998 la Finanza ha sequestrato un patrimonio di 10 milioni di euro. Secondo una sentenza del tribunale di Palermo, che ha sottoposto Cosenza a tre anni di sorveglianza speciale, i residence e gli appartamenti dell’imprenditore sarebbero infatti stati costruiti con denaro di clan mafiosi.

    Le prime indagini a riscontro delle dichiarazioni di Spatuzza non fanno dunque ritenere le sue parole prive di fondamento. La Dia (Direzione investigativa antimafia) ha anche accertato che Spatuzza era guardiano alla Valtras. E nel corso delle indagini sulle stragi il numero telefonico fisso della Valtras è risultato essere stato contattato dal cellulare in uso a Spatuzza. Inoltre è stato accertato un altro testimone, Agostino Trombetta, arrestato nel ‘96, ha detto: “Spatuzza e Graviano si vedevano alla Valtras”.

    Basta tutto questo per avvicinare l’ombra ingombrante dei fratelli Graviano alla figura del presidente del Senato? Certamente no, anche se sono un fatto i rapporti professionali come avvocato amministrativista o di affari tra Schifani e molti altri personaggi che gravitavano attorno a Cosa Nostra. A volte come vittime. A volte come complici. Schifani, come rivelato da Il Fatto, ha assistito tra gli altri Innocenzo Lo Sicco, vittima dei Graviano che lo avevano indotto a costruire palazzi nel loro interesse. Innocenzo Lo Sicco, nipote di un altro costruttore mafioso, però, a un certo punto ha avuto il coraggio di rompere con la famiglia e con le sue paure, denunciando i boss di Brancaccio.

    Il problema, per il momento politico, rappresentato dalle indagini sulle stragi condotte a Firenze e Caltanissetta e da quelle sulla trattativa portate avanti a Palermo, per il Pdl diventa insomma sempre più grande. Nelle mille e passa pagine di carte depositate al processo di appello contro Dell’Utri, in vista dell’udienza di Spatuzza, emerge lo spaccato di una classe dirigente con molti rapporti con i boss. Per questo mentre la maggioranza sembra fare quadrato, crescono le preoccupazioni per gli sviluppi delle inchieste. I magistrati stanno infatti cercando di rispondere alla domanda delle domande: perchè Filippo e Giuseppe Graviano, che con Spatuzza sostenevano di aver raggiunto un accordo politico con Berlusconi, sono stati latitanti per mesi proprio a Milano? Chi li ha assistiti nella latitanza? Chi hanno incontrato? La risposta, forse, arriverà dall’analisi dei tabulati di vecchi cellulari. E a Roma, come all’ombra della Madonnina, tremano in molti.

    Marco Lillo
    Peter Gomez
    Fonte: Il Fatto Quotidiano del 26 novembre 2009, pag. 3


    Sulla vicenda c'è anche un editoriale di Antonio Padellaro, che potete leggere qui.
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  4. #4
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    Chissà perchè a Milano eh.

  5. #5
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    Ed ecco il secondo articolo, diviso in due messaggi.


    Storia di un palazzo abitato dai boss
    Il presidente del Senato era il legale del costruttore


    C’è un palazzo a Palermo, vicino allo stadio della Favorita, che spiega meglio di un trattato la mafia e l'antimafia. I suoi nove piani sono un monumento alla prevaricazione dei forti sui deboli, dei corrotti sugli onesti. Sono stati costruiti in spregio a ogni norma con la complicità della politica, calpestando con la ruspa i diritti di due donne inermi.

    Ogni muro, ogni mattone, profuma di mafia. Chi ha eseguito i lavori e chi li ha diretti, chi ha fornito il calcestruzzo e chi ha fatto gli scavi, chi ha guadagnato vendendo gli appartamenti e talvolta anche chi li ha comprati, è legato da vincoli di sangue o di cosca con i padrini più blasonati di Palermo: Madonia, Bontate, Pullarà, Guastella, Lo Piccolo. Il capo dei lavori, Salvatore Savoca, è stato strangolato perché non voleva dividere il boccone di cemento con un clan più forte del suo: i Madonia. L'assessore che ha dato la licenza è stato condannato per le mazzette ricevute in cambio della licenza. Il costruttore Pietro Lo Sicco è stato condannato per mafia e corruzione ed è in

    galera. Il palazzo è stato confiscato e le vittime, Rosa e Savina Pilliu, vivono proprio nell'appartamento nel quale dormiva Giovanni Brusca, l'uomo che ha schiacciato il telecomando della strage di Capaci.

    Sembrerebbe una storia semplice nella quale è persino troppo facile scegliere da che parte stare. E invece la storia di Piazza Leoni dimostra che la vita è fatta di scelte, mai scontate. Questo palazzo incrocia il destino di due uomini famosi e distanti tra loro: Renato Schifani e Paolo Borsellino. Il primo (prima che le procure e i tribunali accertassero le responsabilità del costruttore corruttore e mafioso) ha messo a disposizione la sua scienza per sostenere il torto del più forte. Il secondo, nei giorni più duri della sua vita, ha trovato il tempo per ascoltare le ragioni dei deboli. Quel palazzo è ancora in piedi anche grazie anche ai consigli legali, ai ricorsi e alle richieste di sanatoria dello studio legale Schifani-Pinelli del quale il presidente del senato è stato partner con l'amico Nunzio Pinelli negli anni chiave di questa vicenda, prima di lasciare il posto al figlio Roberto. Mentre Schifani combatteva in Tribunale per Lo Sicco, il giudice Paolo Borsellino, trascorreva le ore più preziose della sua vita per ascoltare le signorine Pilliu.


    INCROCI DEL DESTINO
    E c’è una coincidenza che fa venire i brividi perché proprio da Piazza Leoni, dove allora sorgeva lo scheletro del palazzo abusivo, sarebbe partita al’alba del 22 luglio 1992 la Fiat 126 imbottita con 90 chilogrammi di tritolo che ha ucciso il giudice istruttore. Le signorine Pilliu non lo sapevano ma quelli che si nascondevano dietro il costruttore che le minacciava stavano preparando le stragi. Chissà se Borsellino aveva intuito qualcosa di strano dietro quel palazzo. Una cosa è certa, se dieci giorni prima di morire, 50 giorni dopo la morte di Falcone, un uomo come lui perdeva tempo a parlare con queste signorine doveva esserci una ragione. Forse allora, 17 anni dopo, vale la pena di riascoltare il racconto di Savina e Maria Rosa Pilliu.


    SORELLE-CORAGGIO
    Queste due signorine di origine sarda possedevano due casupole all’interno di un filarino di ex fabbriche riadattate ad abitazione. Il padre era morto giovane ma le sorelle e la mamma, a costo di mille sacrifici, erano riuscite ad andare avanti grazie a un negozio di generi alimentari a due passi da piazza Leoni. Tutto scorreva liscio finché la mafia non mise gli occhi sul terreno accanto alle casette. “All’inizio si fece avanti Rosario Spatola”, raccontarono le sorelle quel giorno a Paolo Borsellino. Al giudice si accesero gli occhi. Spatola è stato uno degli uomini più ricchi della Sicilia, il costruttore della vecchia mafia di don Stefano Bontate, sterminata da Riina negli anni ottanta, l’amico del banchiere Michele Sindona, che aveva ospitato nella sua villa fuori Palermo. Nel settembre del 1979, Spatola si presenta nel negozio della famiglia Pilliu in via del Bersagliere e fa la sua proposta per comprare le casette. Ovviamente non voleva tenerle ma distruggerle. Per costruire un palazzo più grande sul suolo di fronte, eliminando le case e il problema delle distanze. L’idea era buona ma due settimane dopo, proprio per l’inchiesta nata dai contatti tra Sindona e la mafia, Spatola finisce in galera. Il terreno passa dopo un paio di giri a Gianni Lapis, consulente di Vito Ciancimino, per finire nel 1984 a un costruttore ignoto: Pietro Lo Sicco, un benzinaio legato al boss della mafia perdente, Stefano Bontate.

    Più andavano avanti nel loro racconto, più snocciolavano nomi e date con il loro eloquio antico, e più il giudice Borsellino si interessava alla loro vicenda. Spatola, Ciancimino, Lo Sicco. Anche il nome del costruttore probabilmente diceva qualcosa a Borsellino. Era stato arrestato da Giovanni Falcone, ma poi prosciolto. Lo Sicco era legatissimo a Stefano Bontate però quando il vecchio boss viene ucciso passa con i vincenti. Quando rileva il terreno cerca subito di comprare le casette di fronte per ampliare lo spazio e la cubatura. Con le buone o le cattive convince tutti a vendere. Nessuno osa dirgli di no. Tranne le sorelle Pilliu che non vogliono svendere. A questo punto succede l’incredibile: Lo Sicco dichiara al comune di avere anche le particelle catastali della mamma delle sorelle Pilliu. Ovviamente sotto c’è una mazzetta all’assessore all’urbanistica che frutta una licenza che prevede due cose connesse: la possibilità di costruire un palazzo con tre scale e sette piani (che poi diverranno nove) a condizione però che prima la società di Lo Sicco, Lopedil, abbatta le casette che però, piccolo particolare, non sono della Lopedil. Il 3 marzo del 1990 la società ottiene la concessione edilizia. Le Pilliu denunciano alla Prefettura e al Comune l’abuso ma non si muove nulla. Anzi si muovono le ruspe. La Lopedil tira su il palazzo e butta giù le casette. Le ruspe demoliscono quelle accanto e i piani superiori del fabbricato. Gli appartamenti delle Pilliu (che per fortuna dormono altrove) si ritrovano senza tetto: c’è solo il pavimento del piano superiore a difenderli dalle intemperie. Le sorelle chiamano i vigili urbani, la Polizia e i Carabinieri ma nessuno interviene. Il comandante dei vigil arriva sul luogo e sembra possa essere il salvatore delle sorelle ma dopo aver controllato le carte dice: “sono in regola e io posso fermare un automobilista senza patente non uno con una patente falsa”.


    LA MINACCIA
    Le signorine cercano di opporsi fisicamente ma Lo Sicco le minaccia e le offende dicendo a Rosa Pilliu: “Vattene - da qui perchè se no ti dò un - timpuruni. Senti a me, vai a vendere i tuoi pacchi di pa- ri- sta al negozio che tra un po’ - non potrai vendere più nemmeno quelli”. È in questa fa- . se che le sorelle, disperate, ri- chiedono aiuto a Borsellino. Si vedono l’ultima volta il 13 in luglio, il magistrato le rinvia a due giorni dopo. Ma è il giorno di Santa Rosalia, le Pilliu non vogliono perdersi la festa alla “Santuzza” e chiedono di fissare un appuntamento più in là. Borsellino si impegna a richiamarle. Dieci giorni dopo morirà in via D’Amelio.


    TRITOLO

    Il giudice non poteva sapere che proprio gli uomini interessati a quel palazzo stavano preparando la sua uccisione e le stragi del 1993 a Roma, Firenze e Milano. Giovanni Brusca, il boss che ha spinto il pulsante del telecomando della strage di Capaci, l’uomo che ha ordinato ed eseguito un centinaio di omicidi, tra i quali quello del bambino Santino Di Matteo, colpevole solo di essere figlio di un pentito, ha raccontato: “Gli scavi a Piazza Leoni li ha fatti Pino Guastella (arrestato come capo mandamento Palermo centro nel 1998 Ndr). Poi io mi sono comprato un appartamento, tramite Santi Pullarà, che mi ha fatto fare un buon trattamento. Ci ho dormito pochi giorni però. Lo avevo fatto intestare a Gaspare Romano. Costui poi nel '95 fu scoperto dalla DIA che lo pedinava e mi sono fatto ridare i soldi indietro, perché a quel punto a me l'appartamento non serviva più. Siamo andati a vederlo con Leoluca Bagarella (il cognato di Riina che ha guidato la mafia durante la stagione delle stragi del 1993), io con una macchina e lui con un'altra, di sera. Più che altro per scegliere i piani e vedere gli appartamenti come erano combinati, perché ancora erano grezzi, in costruzione. Cioè dovevamo riuscire a capire come funzionavano, se c'era l’ascensore, se c'erano scale. Una cosa che io avevo chiesto, di particolare, se era possibile poter fare l'ascensore come come quello che avevo visto nella casa di Ignazio Salvo (uno dei cugini esattori di Salemi, legati alla Dc andreottiana e arrestati da Falcone) che io ho frequentato molto. Lui quando arrivava con la sua macchina, prendeva l'ascensore e con una chiavetta saliva fino all'attico. E quindi era un suo privilegio, e io chiesi questa cosa ma non era realizzabile perché il garage era per tutti, non solo ed esclusivamente per me”. Poi però i boss capirono che due latitanti per un palazzo era troppo. “Bagarella era interessato pure ed è venuto a vederlo con l'intenzione di comprare. Quella sera ci sono andato con Gioacchino La Barbera (altro autore della strage di Capaci, ndr). Lo abbiamo scelto sia io che Bagarella perché era un posto di élite a Palermo. Cioè Piazza Leoni, era un investimento. Poi io pensavo successivamente di farci la latitanza, ma questo era un problema mio”. Anche Gioacchino La Barbera, pentito dopo aver partecipato alla strage di Capaci conferma e aggiunge particolari: “Ho accompagnato varie volte sia Leoluca Bagarella che Giovanni Brusca a piazza Leoni. Brusca sul posto con una persona responsabile del cantiere stava cercando di fare modificare un appartamento per essere comunicante. Perché stava studiando un'intercapedine per trascorrere la latitanza e in caso di un sopralluogo delle forze dell'ordine riuscire a nascondere o a scappare”.

    (segue nel messaggio successivo)
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  6. #6
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    (segue dal messaggio precedente)

    L’ARSENALE E GLI INQUILINI
    Nel palazzo c’era anche un appartamento con un muro finto dietro il quale si nascondevano le armi del clan Madonia. Insomma le riunioni di condominio in quello stabile non devono essere una passeggiata. Nei piani alti abitano la figlia di Stefano Bontate, e hanno abitato entrambe le figlie del costruttore mafioso Pietro Lo Sicco. Nell’attico più grande e bello c’è una famiglia legatissima a Bontate, i Marsalone, il cui patriarca Giuseppe è morto ammazzato a fine anni ottanta. Tra quelli che ci hanno abitato, non mancano però anche i professionisti della “Palermo bene”. Al quinto piano c’è l’avvocato Antonino Garofalo, socio di Renato Schifani in una società fondata nel 1992 e mai attivata, la Gms. La casa è affitatta e se ne cura l’avvocato ma è intestata alla sua compagna russa. L’appartamento accanto a quello che fu di Brusca era occupato dallo studio di Salvatore Aragona, il medico amico di Totò Cuffaro e già condannato per avere fornito al boss di San Giuseppe Iato un alibi. Molte di queste persone, avevano stipulato con Pietro Lo Sicco un contratto preliminare di compravendita. Quando il 17 settembre del 1993 il Comune annulla la concessione edilizia. E blocca tutto.


    CAVILLI E MILLIMETRI
    A questo punto entra in scena l’avvocato Renato Schifani. Insieme al suo collega di studio, Nunzio Pinelli, presenta ricorso al Tar. Partecipa anche a un sopralluogo nel quale si accerta che “il distacco non deve essere inferiore a metri 12,75 e in effetti risulta pari a metri 7,75. Ciononostante lo studio Schifani-Pinelli verga uno splendido ricorso alato. La tesi sostenuta è che la demolizione delle casette da parte di Lo Sicco “avrebbe solo anticipato gli esiti di un intervento di pubblica utilità, cui istituzionalmente era ed è tenuta l’Amministrazione Comunale”. In sostanza Lo Sicco è un benemerito che si è sostituito alle ruspe del comune. Se ha finto di essere proprietario ed se è passato come un rullo sulle case altrui non lo ha fatto certo per vendere a clienti facoltosi e amici mafiosi bensì per ridare decoro alla zona. Meriterebbe quasi un premio.

    Incredibilmente il Tar il 23 gennaio del 1995 accoglie le tesi di Schifani e Pinelli e annulla la revoca della concessione, che così rivive. Le Pilliu sono distrutte. Lo Sicco esulta. Il Consiglio di Giustizia Aministrativa della Regione Sicilia, il Cga, però accoglie l’appello e, nonostante l’opposizione dell’avvocato Renato Schifani, annulla la concessioine. Per sempre. O almeno così dovrebbe essere.


    LA PROVVIDENZA DI B.
    Perché il condono Berlusconi del 1994 prevedeva in un comma nascosto nella

    legge che, in caso di annullamento della concessione, si poteva presentare domanda di sanatoria anche dopo la scadenza dei termini previsti. Non solo: per questa sanatoria straordinaria non c’era nemmeno il limite di cubatura abusiva di 750 metri. Una pacchia. La società Lopedil fa subito domanda di sanatoria. Succede però un imprevisto: il nipote di Pietro Lo Sicco, Innocenzo, pur non essendo stato mai nemmeno indagato, trova il coraggio di dividere la sua strada da quella della famiglia e racconta ai magistrati la storia dello zio e del palazzo di piazza Leoni. Innocenzo Lo Sicco, che oggi è un dirigente di un’associazione antiracket, lancia un paio di frecciate a Schifani durante un’udienza del processo nel 2000. Sulla concessione di piazza Leoni la sua deposizione è netta: “l’impresa di mio zio, la Lopedil, non era in possesso di tutti i titoli di proprietà del terreno ma comunque è riuscito ad ottenere la concessione grazie ai buoni uffici che mio zio intratteneva con personale dell’edilizia privata. Il progetto è stato approvato dalla commissione presieduta dall’onorevole Michele Raimondo, in assenza del titolo di proprietà. L’accordo di cui io ero a conoscenza era che l’assessore Raimondo faceva approvare il progetto e, al rilascio dell’autorizzazione il signor Lo Sicco avrebbe pagato una, non so se definirla una tangente o un riconoscimento all’assessore di 20-25 milioni di lire”. Grazie a queste dichiarazioni Pietro Lo Sicco è stato condannato per truffa e corruzione. Poi il nipote continua il suo racconto confermando quello delle Pilliu: “dopo che il signor Pietro Lo Sicco aveva la concessione ha cominciato i lavori di sbancamento e demolizione e ci furono reazioni da parte dei proprietari. Principalmente da parte delle signorine Pilliu e di un certo Onorato che, addirittura, mi ha quasi menato. Le reazioni ci sono state: intervento della forza pubblica, Carabinieri, 113, Polizia giudiziara, tutto c’è stato in quel periodo. Era un viavai di forza pubblica con i proprietari che facevano le loro giuste lamentele e che volevano bloccare la concesione e che si ritrovavano in questa situazione che non riuscivano a bloccare”. Come è finita? Chiedono i giudici a Innocenzo. “Io so quello che mi ha detto Renato Schifani. L'avvocato mi disse come è stato salvato l'edificio facendolo entrare in sanatoria. Schifani era il mio avvocato. Pietro Lo Sicco si rivolse a lui per la pratica del palazzo di Piazza Leoni perché sapeva dei buoni uffici che intratteneva Schifani con l'allora assessore Michele Raimondo e con l'allora dirigente Vicari. Schifani era una persona di massima competenza nelle pratiche edili, (....) aveva una conoscenza sia in termini professionali, sia in termini diretti personali con i personaggi dell'edilizia privata per il papà che ha lavorato tutta la vita all'interno dell'edilizia privata. Quindi è la persona adatta”. Schifani entra in politica a livello locale in Forza Italia e sarà senatore solo dal 1996. Ma Lo sicco spiega che l’opera di lobby dell’attuale presidente del senato avrebbe avuto un effetto “sulla concessione edilizia ottenuta l’avvocato Schifani ebbe a dire a me, suo cliente, che aveva fatto tantissimo ed era riuscito a salvare il palazzo di Piazza Leoni facendolo entrare in sanatoria durante il Governo Berlusconi perché fecero una sanatoria e lui è riuscito a farla pennellare in quello che era l'esigenza di questi edifici di Piazza Leoni. Quindi era soddisfattissimo e me lo diceva con orgoglio di essere riuscito a salvare questa vicenda. Perché lo diceva a me? Perché io avevo messo a conoscenza l'avvocato Schifani quando era iniziato il rapporto col signor Lo Sicco di qual era l'iter di quale era stata la prassi, di qual era la situazione di come si era venuta a creare il rilascio della concessione”.


    L’INCHIESTA
    Il pm di Palermo Domenico Gozzo ha aperto un fascicolo generico, senza indagare Schifani, per le accuse di Lo Sicco. Ma ha ritenuto che non ci fosse nulla di rilevante. Nel procedimento penale non sono state considerate penalmente rilevanti nemmeno le parole di Innocenzo Lo Sicco sui costruttori Antonino Seidita e Giuseppe Cosenza. Questi due imprenditori, entrambi amici di Lo Sicco, entrambi considerati legati ai fratelli Graviano ed entrambi clienti dello studio Schifani-Pinelli, seconco Innocenzo Lo Sicco svolsero un ruolo nella vicenda. Cosenza sarebbe stato incaricato dall’assessore di chiedere a Seidita di chiedere a sua volta un rialzo della mazzetta: da 20 milioni di lire a un attico. Ma Pietro Lo Sicco non accettò e si fermò al versamento previsto nella prima offerta. Pietro Lo Sicco è stato condannato per la vicenda amministrativa a due anni e due mesi per corruzione, e truffa. Mentre per i suoi legami con la mafia è stato condannato a sette anni. Entrambe le sentenze sono passate in giudicato. Anche sul fronte amministrativo la vittoria delle sorelle Pilliu è definitiva. Nel novembre del 2002 il Tribunale di Palermo ha accertato che il palazzo non rispetta le distanze dalle due casupole delle signorine Pilliu e deve essere abbattuto. Per l’esattezza dovrebbero essere “tagliati” dalla costruzione otto metri e sei centimetri al piano terra e cinque metri e 81 centimetri ai piani superiori.


    AD PERSONAM
    Si attende la Corte di Appello ma nella finanziaria del 2000 un emendamento del senatore Michele Centaro di Forza Italia ha introdotto una norma che sembra fatta su misura per sanare la situazione di piazza Leoni: l’amministratore giudiziario può chiedere la sanatoria del palazzo confiscato per mafia e vendere ai terzi che hanno comprato. La figlia di Bontate, quindi, come gli altri, potrebbe comprare. Resta il problema delle distanze. Intanto, nel gennaio del 2005 sono crollate le casette delle Pilliu. Senza tetto, con l’acqua che entrava da tutte le parti, hanno ceduto. Un giudice ha pensato bene di aprire un processo. Non contro Lo Sicco. Ma contro le sorelle Pilliu, per crollo colposo.

    Marco Lillo
    Fonte: Il Fatto Quotidiano del 20 novembre 2009, pagg. 2-3
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  7. #7
    Io, accusato di essere mafioso, vi dico che Silvio è in pericolo
    di Vittorio Sgarbi

    La mafia c’è. E ci sono soprattutto i mafiosi. Ma non c’è niente di peggio che cercare la mafia dove non c’è. E chiamare mafiosi quelli che non lo sono. Talvolta soltanto chiamarli, per sfregio, per rabbia, per inadeguatezza, come è capitato a me. Lo hanno dimenticato tutti e forse è persino inopportuno che io lo ricordi qui. Ma è una parabola esemplare. Con essa si può anche capire cosa abbia ispirato, in tante occasioni, il mio furore nei confronti dei magistrati che sbagliano. Così non ho mancato di ricordare, ogni volta che vengo provocato dagli integralisti che vengono ai miei incontri ispirati da una fede cieca in Grillo, Travaglio e il più modesto Pietro Ricca, le sfrontate imprese del loro idolo Caselli.
    Che a parte la vicenda Andreotti, da me definita «processo politico» (con relativa condanna, per me, definitiva perché nessuno, neppure un parlamentare può osare dirlo e perfino pensarlo, dell’azione di un magistrato) concluso con la più pilatesca che salomonica sentenza di assoluzione con prescrizione per i reati commessi fino al 1980, sui quali peraltro - e Travaglio non lo dice - insiste soltanto la tesi dell’accusa senza un dibattimento fra le parti, vi sono altri episodi che segnalano la pericolosità del magistrato. Se nel caso di Andreotti ha ottenuto la soddisfazione, anche per non dichiarare vana un’inchiesta durata più di dieci anni e costata allo Stato qualche decina di miliardi di lire, di lasciare l’odiato nemico infangato (mafioso fino al 1° luglio 1980, non lo era più il 2) non ha peraltro dato segni di pentimento rispetto agli arresti di innumerevoli innocenti fra i quali il presidente della Provincia di Palermo Musotto, il padre francescano Mario Frititta, mostrato in manette fra due carabinieri perché aveva osato confessare un mafioso peccatore ma non pentito, il potente ministro democristiano Calogero Mannino tenuto in galera quasi tre anni, per essere poi assolto e senza che l’indagine sfiorasse il suo capo corrente De Mita, il grande magistrato Luigi Lombardini di cui tutti ricordano la probità ma che fu incriminato da Caselli e interrogato da un pool di magistrati arrivati con aerei di Stato e scorta a Cagliari umiliando il collega che, prima della loro partenza, cioè subito dopo l’interrogatorio, si suicidò. Non abbiamo per nessuno di questi casi segnali di ravvedimento da parte di Caselli, in compenso abbiamo tutte le querele che lui mi ha fatto per averlo criticato. Per il suicidio di Lombardini e per la carcerazione ingiusta di Calogero Mannino nessuno, tanto meno lui, ha pagato. Se dovesse essere riconosciuto il danno, a pagare sarebbe lo Stato. Fatta questa lunga premessa devo dire perché io non ho mai ritenuto che le ragioni dell’accusa, non sufficientemente fondate o basate sulle parole dei pentiti dovessero essere rispettate a priori. Sono «sparate» che fanno colpo, e oggi ne abbiamo la prova nella diffusa presunzione di colpevolezza del sottosegretario Cosentino, non in base ai fatti, ma in base al rango dei camorristi che parlano di lui. Considerati autorevoli, avvalorano le accuse. Ma le prove? E il rischio diffamazione? Quando è così forte l’accusa si pensa che sia fondata e viene sopraffatta la presunzione di non colpevolezza. Toccò anche a me, ma la forza della mia reazione non ha lasciato traccia dell’inevitabile diffamazione. Il 2 novembre 1995 ero a Spalato, partito il giorno prima con l’inseguimento dolce, di cui non avevo valutato il rilievo, di un colonnello dei carabinieri (un colonnello, non un maresciallo) che mi doveva consegnare un documento riservato. Poteva anche essere come in altre occasioni per le innumerevoli querele un avviso di garanzia, ma non gli avevo dato particolare peso. Senza dunque che io ne fossi a conoscenza la mattina del 2, verso le 11, mentre ero in riunione con il sindaco di Spalato, vengo informato che, sulle prime pagine di tutti i giornali, a otto colonne, era apparsa la notizia che insieme all’amica e collega Tiziana Maiolo, eletta come me al Parlamento in Calabria, ero indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. Lo stesso reato che nei prossimi giorni i pm di Palermo potrebbero contestare a Berlusconi.
    Nel giorno dei morti ero diventato mafioso. La mia reazione fu furibonda e il Parlamento presieduto da Giorgio Napolitano manifestò una pressoché unanime solidarietà, sfiduciando i magistrati. L’indagine continuò con le dichiarazioni di un pentito, tale Pino, che diceva cose insensate sui voti di evidente consenso che io avevo ottenuto con la mia popolarità, magari manifestando anche posizioni non diverse da quelle di Pannella sul regime del 41 bis. Per le quali i nomi di 52 deputati furono pubblicati in prima pagina di Repubblica come «infami» per avere pubblicamente espresso una posizione non politicamente corretta. Le accuse erano insensate e prive di qualunque riscontro che non fossero le mie parole nei comizi perfettamente corrispondenti a quelle in ogni altra sede e ancora oggi espresse. Ricordo i nomi di due dei quattro pubblici ministeri che si erano applicati a rendere credibili le parole del pentito: Tocci e Chiaravalloti. Come in altre occasioni, in Calabria, i magistrati si erano mossi con molta fantasia e suggestioni del genere: chiunque faccia politica in Calabria, dai vecchi notabili, a due new entry come Sgarbi e la Maiolo, è mafioso o colluso. Così si era avvalorato il reato, inesistente ai codici, di concorso esterno. Una insensatezza giuridica e uno strumento per colpire nemici ideologici. Per dare loro una lezione. Come era nel nostro caso. L’accusa resse per otto mesi, quando il procuratore capo Anfimafia Pierluigi Vigna, diede, con sensibilità e intelligenza, una strigliata ai quattro pm e al loro parzialmente dissociato capo Lombardi, e li indusse alla archiviazione. Ma l’obiettivo era stato raggiunto. Era quello di avere diffamato, in nome del popolo italiano, due politici del tutto estranei alle accuse, ma pericolosi per le loro posizioni di principio. Da quel momento io so che ogni accusa può essere infondata e che è diritto dell’accusato ribellarsi se conosce, diversamente dai magistrati, la verità.

  8. #8
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    Cicciopie, come ci si può fidare di un "giornalista" che continua a scrivere una cosa non vera pur di sostenere la sua tesi? Ecco la sua boiata:
    il grande magistrato Luigi Lombardini di cui tutti ricordano la probità ma che fu incriminato da Caselli e interrogato da un pool di magistrati arrivati con aerei di Stato e scorta a Cagliari umiliando il collega che, prima della loro partenza, cioè subito dopo l’interrogatorio, si suicidò
    I fatti invece andarono così: Lombardini venne interrogato da Caselli perché era il legittimo titolare delle indagini e lo fece nel rispetto della prassi e della dignità di Lombardini. C'è la registrazione audio a confermarlo e su di essa si basa l'assoluzione per il pm Caselli. Addirittura alla fine dell'interrogatorio l'avvocato difensore di Lombardini ringraziò Caselli per la condotta tenuta durante l'interrogatorio.
    Il tragico suicidio del magistrato non è quindi da imputare all'interrogatorio come si disse in un primo momento (la giustizia sommaria!).

    http://archiviostorico.corriere.it/1...08214797.shtml

    Ora, Vittorio Feltri metterà in dubbio le parole dei pentiti mafiosi, che però devono aver trovat riscontri per avere un peso. Noi mettiamo con le spalle al muro le bugie senza dover attendere riscontri, perché ci sono già.

    PS: bentornato, spero non andrai via sbattendo la porta come l'ultima volta
    Lo Stato deve dare ai cittadini, come diritto, ciò che la mafia dà come favore.
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  9. #9
    feltri?!

    comunque è sgrìarbi... accusato da pentito, che i magistrati hanno riscontrato... poi cassato... come vedi credere ad occhi chiusi non sempre si indovina

  10. #10
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    Originariamente inviato da cicciopie II
    feltri?!

    comunque è sgrìarbi... accusato da pentito, che i magistrati hanno riscontrato... poi cassato... come vedi credere ad occhi chiusi non sempre si indovina
    Sgarbi, errore mio.
    E' stato assolto da ogni accusa? Bene, evidentemente sono arrivati i riscontri a suo favore.

    Com'è andata la sua vicenda vorrei che lo raccontasse qualcun'altro perché, accusando ancora Caselli per quell'interrogatorio, Sgarbi continua a dire una bugia. E io mi fido poco di chi dice una cosa dimostrata falsa. La pensi così anche te o gli credi ad occhi chiusi?
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