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Marzio Breda per "Il Corriere della Sera"

«Nella politica italiana sono sempre stato un corpo estraneo. In nulla assimilabile alla filosofia e allo stile che hanno guidato, e ancora guidano, i comportamenti di molti uomini di partito. Un corpo estraneo... e tale del resto mi hanno fatto sentire. Ne ho avuto prova in tante occasioni. La più chiara - ma dovrei dire oscura - delle quali risale all'ottobre 1998.

Quando mi fu chiesto di guidare per la seconda volta il governo e quell'incarico invece sfumò nell'arco di pochissime ore, senza che sapessi perché. Un mistero che ne D'Alena ne Prodi, protagonisti a diverso livello della vicenda, mi hanno mai svelato. La verità, ne sono convinto, è che la mia presenza a Palazzo Chigi non era gradita a troppa gente.

A cominciare dalla mafia, come dimostrò la stagione delle bombe cominciata nel maggio '93, nella mia prima esperienza da premier. Cinque anni dopo, la via d'uscita per sbarrarmi le porte di Palazzo Chigi fu di farmi andare al Quirinale».

Carlo Azeglio Ciampi rievoca un momento chiave della sua parabola pubblica, che ha accennato nel libro-conversazione con Arrigo Levi. Un passaggio delicatissimo, per lui stesso e per il Paese, coinciso con la crisi dell'Ulivo e la caduta dell'esecutivo di Romano Prodi.

Sono i giorni in cui l'Italia sembra uscita fuor del pelago a la riva, come disse allora, citando Dante e rivendicando «risultati eccezionali», per rilanciare (da ministro del Tesoro) la necessità di un patto sociale su cui rinsaldare la maggioranza, scossa dalle proprie contraddizioni interne.

E invece in tempi brevissimi, e per un solo voto, il governo cade e lo scenario si carica di incognite, particolarmente gravi, dato che c'erano da completare le procedure per l'ingresso dell'Italia nell'euro. Racconta l'ex capo dello Stato, nel lungo colloquio autobiografico: «Sto trascorrendo un weekend al mare, quando mi raggiunge una telefonata di Massimo D'Alema: "Ho bisogno di parlarti con urgenza". Dico: "Sono a Santa Severa e domani devo andare a Bruxelles per l'Ecofin...". Risposta: "Vengo subito a Santa Severa".

Mentre D'Alema è in macchina, arriva una telefonata di Veltroni, che dice: "Caro Ciampi, so che viene da te D'Alema, la ragione per cui viene è da me pienamente condivisa, è come se ci fossi anch'io"». E la «ragione», ricorda ancora, è la preghiera - a nome della coalizione - di fare il presidente del Consiglio. «D'Alema mi scongiura di accettare, io oppongo resistenza. Poi, di fronte alla sua insistenza motivata, ragionata, do il mio assenso». Tutto questo accade nel tardo pomeriggio di domenica.

Il lunedì Ciampi è alla riunione dell'Ecofin e, durante le pause del vertice, si appunta su un foglietto la possibile formazione del nuovo governo, tecnico, «senza seguire il suggerimento dalemiano di fare una fotocopia di quello Prodi», appena naufragato. Scrive i nomi (e lo fa in caratteri greci, forse per non renderne troppo diretta la decifrazione se li avesse smarriti) dei suoi ministri, con l'idea di bruciare le tappe non appena fosse stato chiamato al Quirinale, da Scalfaro.

La sua idea è: niente incarico con riserva, niente consultazioni, ma accettazione subito, con l'esecutivo insediato e al lavoro il più presto possibile. Invece, martedì toma da Bruxelles e «cala il silenzio più assoluto, nessuno si fa più vivo». Fino a venerdì, quando a sorpresa giunge la notizia dell'incarico a D'Alema (intanto era abortita in un lampo l'ipotesi di un Prodi-bis).

Ciampi gli indirizza una lettera di complimenti, nella quale però gli annuncia il proprio rifiuto a restare al ministero di via XX Settembre. L'«indisponibilità» rientra dopo che il premier in pectore gli dice «se tu non entri, io non posso fare il governo» e dopo che lo stesso Campi riflette sull'ingresso del Paese nell'euro, «un matrimonio rato ma non consumato».

Entrerà dunque nella squadra dalemiana, ma soltanto «per il tempo strettamente necessario», e infatti il 15 marzo 1999 cede il passo e lascia definitivamente. Cos'era successo, presidente Ciampi? Chi si era mosso contro di lei? Da quali fronti politici erano venuti i veti? «Ancora adesso non lo so. Probabilmente concorsero tanti fattori insieme. Di sicuro un ruolo pesante lo ebbe l'ex capo dello Stato, Cossiga, che in alcune tempestive interviste mi imputò di essere stato "antidemocristiano" e mi attribuì "dipendenze torinesi", cioè rapporti troppo stretti con la Fiat. Rapporti mai esistiti».

Di fatto la praticabilità politica di qualsiasi progetto post-Prodi passava attraverso l'Udr di Cossiga. Che coltivava un'ipotesi di larghe intese e aveva l'ambizione di emancipare gli ex comunisti portando il loro leader a Palazzo Chigi. Inoltre, sosteneva che D'Alema avrebbe avuto la forza per fare l'intervento militare in Kosovo, rispettando gli impegni Nato, con il sottinteso che lei o Prodi non l'avreste invece avuta.

«Ci fu pure questo disegno, credo. Di fatto, dopo che erano venuti a implorare la mia disponibilità a formare un governo, cambiarono le carte in tavola e nessuno mi disse più nulla. Anche Prodi ebbe un ruolo poco trasparente». Fu un complotto? Magari una variante di quello che aveva spodestato Prodi? «Ero troppo orgoglioso per chiedere spiegazioni, e tale sono rimasto. Non domandai nulla. In ogni caso quel passaggio, con i suoi aspetti ambigui, mi convinse una volta di più della mia estraneità al sistema dei partiti e alla politica italian style. Tra me e me conclusi che troppe forze non mi volevano a Palazzo Chigi. Le bombe del '93 me l'avevano anticipato».