Tre anni e mezzo fa, era il 12 ottobre 1998, alle otto di sera apparve per la prima volta sui teleschermi il simbolo di TelePadania. Tutto ebbe inizio da lì. Ma per la verità, Telepadania era nata ben prima. Già nel 1997, tra febbraio e marzo, era stata costituita un’associazione che venne chiamata Etere Padano.
L’idea era ambiziosa, tanto ardita da sembrare perfino folle: costruire una nuova televisione indipendente. Sulla carta la sfida sembrava impossibile. Comperare una tivù voleva dire spendere somme astronomiche, la più modesta delle stazioni televisive sul mercato – ammesso che l’editore volesse cederla e non ce n’era neanche una in vendita – valeva sempre più di 30 miliardi. Inoltre, i canali privati regionali e interregionali di fatto erano (e continuano ad essere) dei contenitori di televendite e poco più. Cioè erano del tutto inutili per gli obbiettivi di chi invece voleva, come i soci di Etere Padano, iniziare a contrastare in quel 1998 il monopolio dell’informazione saldamente nelle mani dei soliti noti, sia in Rai sia in Mediaset.
Così cosa accadde?
Si potrebbe chiamare in causa perfino la Provvidenza. Si fece avanti il proprietario di Tele Campione, un signore che si chiama Raimondo Lagostena Bassi, un avvocato genovese con la passione sviscerata per la televisione, tanto da avere comperato pochissimi anni prima una tivù svizzera-italiana, Tele Campione appunto, già fondata da una grande banca di Lugano, l’Ubs. In meno che non si dica, l’accordo divenne operativo. Lagostena con un gesto coraggioso ben al di là di quello che oggi si può capire, disse sì: va bene, mandiamo in onda 2 ore di programmi col marchio TelePadania. È meglio non scordare che quando avvenivano queste cose, contemporaneamente l’attacco giudiziario, politico e mediatico contro la Lega Nord era al massimo della sua virulenza. La Lega che disperatamente combatteva con orgoglio solitario la battaglia per il federalismo fino al punto di essere arrivata alla estrema decisione della secessione pur di averlo almeno in una parte del Paese , era completamente circondata. Bossi, Maroni, Calderoli erano sommersi dagli avvisi di garanzia per reati d’opinione basati sull’uso dei famigerati articoli del codice Rocco di stampo fascista, usati come un maglio contro il Movimento da magistrati di sinistra, appoggiati apertamente dal governo D’Alema e sorretti pubblicamente dai ministri della Giustizia e dell’Interno, Diliberto e Iervolino. Capite quindi il coraggio della decisione di quell’uomo, Lagostena, che tra l’altro era ed è un moderato, uno schivo, un editore televisivo che possedeva oltre Tele campione, anche una stazione tivù cittadina, 6 Milano, e una rete nazionale, Rete Mia. Un uomo che aveva molto da perdere e nulla da guadagnare da questo gesto.
E mentre tutto questo ribolliva, il sottoscritto del progetto Tele Padania sapeva poco e nulla. Lavoravo al quotidiano la Padania dove scrivevo inchieste. Il giornale andava bene, vendeva più di quanto ci aspettavamo. Era un giornale d’attacco, oggi riguardando quei numeri andati in edicola ancora provo entusiasmo. Certo, l’ufficio legale molto meno, ma d’altra parte anche avessimo scritto che l’acqua è bagnata, ci avrebbero querelato lo stesso e la magistratura sarebbe stata – come infatti è avvenuto – consenziente. Così nostre inchieste che ancora oggi gridano verità agghiaccianti vennero ignorate sistematicamente dal potere giudiziario, che però altrettanto sistematicamente prendeva per oro colato le lamentele di chi si sentiva chiamato in causa in vicende oscure che evidentemente per i giudici era molto meglio lasciare nell’ombra, casomai indagando su chi provava a illuminarle, se proprio era così “sfrontato” da farlo come il sottoscritto. Insomma, avevo il mio daffare, quando – e lo ricordo come fosse ora – il 10 ottobre di quel 1998, entrò nella stanza in redazione dove lavoravo Umberto Bossi. “Senti c’è da fare la televisione, devi andarci tu”. Punto. Queste esatte parole, non una di più, non una di meno. Era una di quelle frasi che non ammettevano repliche, non era affatto interrogativa.
Perché io? Certo, venivo dalla televisione, per la precisione da Mediaset che però allora si chiamava ancora Fininvest e Berlusconi era un editore televisivo, non un uomo politico. Ci avevo passato cinque anni, dal famoso gennaio del 1991 di Desert Storm con Emilio Fede. Ero andato via in malo modo nel 1995 dopo avere scritto un libro satirico. Forse esageratamente satirico.
Insomma, il giorno dopo, l’11 ottobre mattina, andai alla sede della nostra tivù che al momento era collocata nel quartier generale di Lagostena a Milano, dove trovai: un telefono uno, un televisore, tre scrivanie, un po’ di cancelleria. E 24 ore dopo dovevamo andare in onda con la serata inaugurale. Certo, potevo far conto su due straordinarie persone che mi avrebbero affiancato, Davide Caparini, direttore della nostra rete che poi assumerà come vedremo tra poco anche altri e prestigiosi incarichi nella nostra tivù, e Gesi Cogrossi, direttrice di produzione validissima e con esperienza televisiva, ma dopo di loro il vuoto spinto. Insomma avevamo la prima linea, ma dietro nessuno. Nel frattanto la sera precedente avevo coinvolto nell’avventura anche un’amica e collega della Padania, Alessandra Mieli che più matta di me in un minuto aveva detto sì. Invece un’altra collega che non conoscevo mi stava aspettando lì quella mattina, parecchio preoccupata anche. Era Sonia Sarno.
In più come una specie di scolaresca al primo giorno di lezione mi stava attendendo anche un gruppo di ragazzi e ragazze, il più vecchio aveva 25 anni. Tutti laureati o laureandi, tutti con la voglia di diventare giornalisti della tivù, ma nessuno che avesse anche un briciolo di preparazione al riguardo.
I nomi li ricordate di sicuro, Massimiliano Ferrari, Valentina Tenani, Nicoletta Cammarota, Filippo Cartosio, Ilaria Lucchetti, Fabrizio Cassinelli e altri ancora. Ma non troppi di sicuro, in tutto eravamo in nove, me compreso.
Questo era il quadro della situazione, e il giorno dopo – ribadisco - c’era la nostra prima messa in onda. In più, la stampa si era interessata parecchio a noi. Venerdì di Repubblica era uscito con uno speciale di 8 pagine su Tele Padania, altri quotidiani avevano dato la notizia nel solito modo tra l’ironico e il sarcastico. Sapete cosa pensai quella mattina? Mission impossible era un bel film, ora mi toccava girarlo dal vero.
E infatti la fortuna aiutò noi audaci, anzi temerari. Sonia Sarno realizzò uno straordinario reportage sulle Ferrovie Nord coi vagoni che si aprivano mentre il treno viaggiava, Alessandra Mieli saltò letteralmente addosso alla tremenda questione della prostituzione di strada. Gli altri ragazzi – tremando dall’emozione ve l’assicuro – portarono a casa come si dice prodotti giornalistici lusinghieri. La serata inaugurale fu un successo, i giornali del 13 ottobre sia pure a denti stretti ammisero che valeva la la pena guardare Tele Padania, Guido Passalacqua di Repubblica ci fece i complimenti, che scritti da lui valevano il doppio, dato l’editore per cui lavorava.
Mi resi conto che l’impatto di TelePadania nei teleschermi era notevole. L’idea iniziale che avevo di fare dell’informazione la tribuna dei cittadini era giusta, e non solo perchè così si mettono in luce le magagne della nostra società, ma anche per dare forza alle speranze, ai valori, alle idee di innovazione e libertà che venivano dal basso, dalla gente. Ma non basta, anche perché volevo riuscire a mettere sullo stesso piano le istituzioni e il popolo per farli parlare, magari litigare, ma certo guardarsi una buona volta in faccia. Questa fu la linea editoriale iniziale che a distanza di oltre tre anni non è cambiata.
Ma continuiamo con la nostra storia. Ora capite che raccontarvi anni del nostro lavoro è impossibile. Ricordo però tanti successi e anche alcuni grandi dispiaceri.
La piccola TelePadania ha saputo affermarsi, questo sì. Nei principali avvenimenti di questi anni noi ci siamo stati. Eravamo a Belgrado nel ’99 quando la Nato scagliava i suoi missili contro i ponti, ma eravamo anche in Kosovo a raccogliere testimonianze di una guerra che fin dal primo giorno capimmo che non avrebbe risolto alcunchè, e siamo stati anche in Romania per raccontare gli orrori degli orfanotrofi lager post-comunisti, e in Bielorussia con i bambini figli di genitori morti per le conseguenze della tragedia nucleare di Cernobil, ammassati a migliaia in altri orfanotrofi in condizioni subumane.
Abbiamo scoperchiato lo scandalo della Missione Arcobaleno, e siamo stati noi a farlo per primi, inascoltati nell’aprile del 1999, a un mese esatto dalla fine dei bombardamenti Nato, mentre i vari Biagi, Montanelli, Costanzo, Scalfari invitavano sui canali Rai e Mediaset i cittadini italiani a essere generosi nel donare quattrini per questa iniziativa umanitaria del governo delle sinistre, quando noi avevamo scoperto che quell’oceano di soldi finiva nelle tasche di corrotti e trafficanti di ogni risma.
Anche la questione dell’Uranio 238, l’uranio “impoverito”, nel senso che ammazza i poveri disgraziati che accidentalmente vengono in contatto con questa tremenda sostanza, è stata una nostra battaglia. Insomma, non c’è stato mese o settimana senza che la nostra redazione mettesse in video notizie totalmente ignorate dalla grande comunicazione, e l’elenco è troppo lungo per citarle tutte. L’ultima inchiesta in ordine di tempo è stata quella sulla pedofilia in internet a pagamento con le carte di credito. E’ uno scandalo internazionale di dimensioni mostruose sia per la devastazione morale che porta con sè, sia per la portata oceanica dei flussi finanziari legati a questo orrendo commercio di materiale pedofilo sul quale notissime compagnie di carte di credito lucrano ogni anno enormi quantità di denaro, riciclandolo – nel senso penale del termine – a favore di loro stesse e dei capi del business che solo grazie alla oggettiva complicità di questi circuiti mondiali di carte di credito possono arricchirsi.
Crediamo quindi di assolvere anche al compito difficile della controinformazione, con pochi mezzi e con le capacità di cui disponiamo, di sicuro senza risparmiarci mai.
Tuttavia, in questi anni formidabili ci sono state anche note dolenti, e non le dimentico di sicuro. Quella che ancora oggi mi fa male è stato il doppiogiochismo politico di Marco Formentini. Formentini era il presidente di Etere Padano, quel 12 ottobre del ’98 era in studio a fianco a me. Ricordo come fosse ora quando alcuni giornali scrissero, siamo a metà ottobre del 1999 nei giorni del primo anniversario di TelePadania oltretutto, che lui stava per abbandonare la Lega. Quel giorno gli telefonai, fu un colloquio breve per chiedergli se era disponibile a una intervista in diretta la sera nel telegiornale proprio su questo. Disse sì, certo Max. Ricordo che gli chiesi esattamente: Formentini lei conferma o smentisce le notizie di stampa sulla sua uscita dal Movimento? Lui smentì categoricamente. E spiegò che mai e poi mai avrebbe abbandonato la Lega, che erano insinuazioni velenose perché era vero che lui dissentiva dalla scelta di costruire un’alleanza col Polo in vista delle elezioni regionali della primavera del 2000, ma lui intendeva rimanere e favorire il dibattito interno… il giorno dopo il Corriere della Sera sparò in prima pagina : Formentini sbatte la porta e se ne va. Salvo però restare nell’incarico di parlamentare europeo eletto con i voti – proporzionali e quindi esclusivi – degli elettori della Lega. Che tristezza.