Il discorso non è breve né facile.
Una delle più grosse soddisfazioni, per chi suona, è andare contro ai pregiudizi "istituzionali", non solo di chi ascolta semplicemente, ma anche di chi produce e distribuisce. E' insieme una soddisfazione e una punta di amaro sulla lingua.
Il mio gruppo musicale suona un genere particolare: l'abbiamo chiamato "heavy metal classico cantato in italiano" giusto perché non c'è un altro genere di riferimento. E' un gruppo molto maturo, perché ha 13 anni di vita alle spalle e 3 lavori discografici autoprodotti (di cui uno "demo del mese" su Metal Hammer, tempo fa). La definizione del genere calza fino a un certo punto, perché la mistura strana che porta in se, ci rende popolari (ovviamente localmente) anche presso un pubblico che non è metal. Non nascondo che è una soddisfazione suonare una propria canzone, e sentire che il pubblico canta il ritornello.
E fin qui rientra tutto nella classica vita di qualsiasi gruppo di provincia.
Nel corso di questi anni abbiamo avuto la testa dura, qualcuno l'ha chiamato "coraggio", ma a me pare esagerato, di diminuire progressivamente le cover, durante i concerti, a favore delle composizioni originali. Contemporaneamente, a proporci più insistentemente a produttori e distributori.
Buona risposta di pubblico: chi si ascolta un concerto metal è sempre un ascoltatore attento e rispettoso.
I contatti con i discografici, le agenzie e i distributori invece portavano in se' un pregiudizio: il lavoro è ottimo, ma dovete cantare in inglese. Questo ascoltando solo i lavori discografici, senza mai venire ai concerti.
Cosa che non si capisce, poi: ai redattori di riviste tedesche, giapponesi, sudamericane che ci hanno assegnato voti più alti di quelli che ci aspettassimo, l'italiano sembrava non dare poi così fastidio. Anzi.
Ieri sera abbiamo fatto da spalla a un gruppo molto più affermato, che ha una produzione e canta, ovviamente, in inglese. La serata è andata da dio, il pubblico è rimasto ad ascoltare, ha applaudito, è stato colpito dalll'energia. C'era un produttore che alla fine ha chiesto: "Ma quali erano i pezzi vostri?" Risposta: tutti. "Ah, cavoli che cosa strana l'Italiano.". Eh già, grazie. C'era un redattore di un magazine: "Che figata, cantate in italiano! E' strano ma lo apprezziamo, come mai questa scelta?" Perché la prima parola che ho detto è stata: "mamma" e non "mother". Come si può esprimere il cuore in una lingua non sua?
Insomma, tutti stupiti eppure tutti lì ad ascoltare. Tutti a fare i complimenti e a dire "non immaginavo". Poi approfondisci il discorso con chi ha i contatti per distribuire un lavoro: "però magari qualche pezzo anche in inglese, eh?". Prima era "o inglese o niente", ora "qualche pezzo?".
Che esterofili del menga che siamo, lo si vede anche nella musica. Ma la cosa che più fa rabbia è che chi produce non si rende conto di come mortifichi così il mercato italiano. Di come non dia neanche una possibilità a qualcosa che invece la gente ascolta generalmente senza sbuffare. (poi, come ovvio, c'è chi ci ha detto: non mi piace. Tanto di cappello, apprezziamo anche più dei complimenti di chi non ascolta).
Grande onore alle band di questo genere (il metal, in tutte le sue forme), che cantano in inglese e vendono all'estero, primo perché alcune branche del metal non possono fisicamente essere cantate in italiano. Poi perché comunque portano in giro il nome dell'italia. L'ascoltatore radiofonico medio italiano, non immagina neanche quanti gruppi italiani siano apprezzatissimi e conosciutissimi all'estero, anche se sconosciuti in patria.
Ma la colpa è sempre dei discografici, mai degli ascoltatori. E il vero peccato, è che i discografici, oggi come oggi, siano i peggiori ascoltatori.
Bon, sfogo lungo, scusate, ma da qualche parte uno deve vomitare. Per chi mi ha retto la testa, due regali, giusto per capire di cosa stiamo parlando: Nemmeno una Parola e Oro.