INTERVISTA A PIETRO TERRACINA:
di Isabella Loschiavo
Nel corso di un incontro con gli studenti del Liceo classico di Cittanova, abbiamo conversato con Pietro Terracina, ex deportato ad Auschwitz. Amaro è stato il racconto del periodo trascorso nel lager e rivissuto con commozione. -
- A che età è stato deportato e come? - Avevo 15 anni, ed ero stato cacciato dalla Scuola che frequentavo. La vita scorreva in modo normale fino all’occupazione tedesca del 1943, quando ci fu la prima razzia tedesca a Roma. Io e i miei fratelli ci nascondemmo in uno scantinato fatiscente. La sera del 7 aprile 1944, mio padre venne a trovarci per festeggiare con noi la Pasqua ebraica, sicuro di non essere stato spiato. Invece un giovane aveva seguito mia sorella e la sera lo trovammo al portone insieme alla gestapo. Fummo trasportati al carcere di Regina Coeli, dopo alcuni giorni ci trasferirono al campo di concentramento di Fossoli (Modena). Passato poco tempo, fummo caricati su un carro di bastiame in 64 persone, sigillato all’esterno. Nessuno può immaginare il disagio del viaggio, gli strazi delle donne e dei bambini: cominciava per noi la disumanizzazione. Arrivati ad Auschwitz, si aprirono i carri in mezzo alle urla dei tedeschi che con i calci dei fucili colpivano i più anziani. Formarono due file: uomini e donne, e se qualcuno si muoveva, veniva bastonato. La prima selezione era fatta di persone che potevano lavorare, la seconda di quelli destinati alla camera a gas e al forno crematorio, tra i quali c’erano mio padre, mia madre e mio nonno. -
- Lei dove venne destinato e come fu trattato? - Io e altri fummo portati in una baracca, completamente denudati, disinfettati con un liquido cosparso sulla pelle e immatricolati. Il nostro nome non esisteva più, si doveva ricordare a memoria il numero in tedesco. Alle 4 del mattino ci svegliavano., facevano l’appello che durava anche due ore e poi costretti a lavorare sotto la sferza dell’aguzzino. Il fischio di un treno era per noi il terrore, perché significava l’arrivo di un nuovo carico e, di conseguenza, la morte di alcuni di noi. Ogniqualvolta si passava davanti al medico, si decideva la nostra sorte. Bastava un malore, come l’edema ai piedi, una febbre, per diventare cenere dopo qualche ora.
Le "fosse crematorie" furono utilizzate sopratutto nell'estate del 1944, quando, accelerato il programma di sterminio, i forni risultavano insufficienti a smaltire l'enorme lavoro.
- In quella situazione si pensava alla morte con sollievo o si sperava sempre di sopravvivere? - Si preferiva morire anzicché soffrire l’inferno. Le speranze di sopravvivere erano minime. Ad Auschwitz accadeva tutto il brutto che un essere umano possa sopportare nella vita.
- E’ riuscito a dimenticare e non odiare? - La ferita non si è mai rimarginata, è ancora sanguinante. Certo non posso colpevolizzare i tedeschi di oggi, provo odio per quelli che sono stati aguzzini e hanno permesso che si verificassero quelle torture.
- Si poteva scappare dal lager o ribellarsi? - Se qualcuno fosse riuscito a scappare non avrebbe fatto nient’altro che fuggire in un altro campo. Si è registrato qualche tentativo di ribellione da parte di quelli destinati alla camera a gas. -
Quando è riuscito a liberarsi? - Sono stato liberato dalle truppe sovietiche il 27 gennaio 1945. Alla libertà non c’erano scene di esultanza perché in fondo c’era l’amarezza di aver perduto i propri cari. Sono stato ricoverato in un ospedale del Caucaso per curarmi e lì ho incontrato un’infermiera che mi restituì alla vita con il suo amore.
- Come ha vissuto dopo? - Non avevo più nessuno, solo ho potuto contare sugli amici che tuttora consolano la mia esistenza. Ho svolto il lavoro di rappresentante di commercio.
- Quale messaggio rivolge ai giovani d’oggi? - Voglio far capire che la libertà è un dono da salvaguardare.