Pare che in Bosnia ci siano finalmente possibilità di incastrare il generale Mladic, uno dei responsabili delle pulizie etniche a metà degli anni '90. Questo articolo del Coprsera di oggi racconta un po' di storia recente dei nostri vicini, ma che conosciamo così poco...
-------------------------------------------------------------------
I segreti di Ratko, il condottiero della pulizia etnica Da figlio di partigiani a massacratore di Srebrenica: le sue confessioni potrebbero incastrare Milosevic
La Bosnia ha prodotto una nuova definizione di crimine di guerra: la pulizia etnica. Per la storia, e presto per il tribunale, quel crimine è associato a due nomi, Ratko Mladic e Radovan Karadzic. E quei nomi alla colpa collettiva di un popolo rimasto in testa nella gerarchia del male nella ex Jugoslavia: i serbo-bosniaci, appendice particolare e montanara del sogno della Grande Serbia. E' in Bosnia che vengono perpetrati i crimini efferati e simbolici della decennale tragedia, l'assedio di Sarajevo (dal 1992 al 1995) e il massacro di Srebrenica (luglio 1995).
La guerra di Bosnia fu anche guerra civile. Serbi, croati, musulmani bosniaci: gli uni contro gli altri, a volte alleati a coppia contro il nemico più debole del momento. Ma le migliaia di morti di Sarajevo e i settemila uomini musulmani di Srebrenica, per lo più combattenti separati dalle famiglie e trucidati nei boschi, restano sul conto dei serbi. Crimini organizzati e ordinati da Karadzic e da Mladic, il presidente della Repubblica dei serbi di Bosnia e il suo braccio armato, il generale comandante dell'esercito serbo-bosniaco.
Al momento dell'arresto, se si ripercorrono i fatti prima che se ne occupino i giudici, è forse più corretto scindere le due figure. Non perché le responsabilità siano moralmente diverse, ma perché lo sono sul piano qualitativo. Separarle, aiuta la comprensione degli avvenimenti. Il generale Mladic è rimasto sempre un militare. E' l'esecutore fino alle estreme conseguenze di un disegno politico, di un ordine superiore e persino l'agente di un clima culturale che affonda nella storia della ex Jugoslavia e dei Balcani.
La prima divisa che ha indossato — quella dell' esercito della Federazione jugoslava — lo colloca fra i generali che guidano le truppe federali contro i secessionisti della Croazia. La seconda, quella dell'esercito serbo-bosniaco, lo colloca alle dipendenze di Karadzic, sia pure con un ruolo non subalterno. Le due divise — indossate senza dubbi e senza tentennamenti — lo distanziano dalle truppe paramilitari che probabilmente aiutò sul piano logistico e dal fanatismo degli ideologi ai quali pure obbedì. Le due divise — soprattutto la prima — lo collocano nel circolo dei generali di Belgrado, lo stesso circolo di alcuni degli ufficiali finiti sotto processo all'Aja, lo stesso circolo che in molte circostanze rispose soltanto a Milosevic.
Se finora il lungo processo in corso all'Aja contro l'ex presidente serbo non ha dato i risultati che la comunità internazionale e il procuratore Carla Del Ponte si attendevano, è anche perché il leader serbo trova abbastanza facili argomenti di difesa scindendo ruoli e responsabilità dallo scenario bosniaco. Certo che i paramilitari di Arkan arrivavano da Belgrado, ma partirono come volontari della causa serba. Certo che i cugini bosniaci andavano aiutati e magari armati, ma queste cose le faceva anche Tudjman per sostenere i croati dell'Erzegovina. Le ambiguità in sospeso potrebbero venire finalmente chiarite con Mladic dietro le sbarre. Ecco perché il suo arresto, forse meno simbolico rispetto a quello di Karadzic, può essere decisivo per l'esito del processo all'Aja. Nonostante la divisa, potrebbe aver voglia di parlare. Almeno per difendersi dallo scaricabarile su Srebrenica e magari per chiarire la sua posizione rispetto a Belgrado.
Prima che parli lui, parla appunto la sua divisa, quella che ha indossato con orgoglio dai tempi dell'Accademia militare nella Jugoslavia di Tito, nelle campagne per mantenere l'unità della Federazione e da fuggiasco, protetto e curato — almeno fino alla caduta di Milosevic — a Belgrado. L'ex premier serbo, che non si preoccupava di insultare in pubblico Karadzic e di considerarlo una fonte di guai per la sua reputazione internazionale (di fatto, a Dayton, lo rappresentò e lo scaricò), nutrì fin quando fu possibile un rispettoso riserbo per il generale. Il pazzo criminale della compagnia, il fanatico, era Karadzic, non Mladic.
Anche la biografia aiuta a comprendere il personaggio e la divisa che indossò. Ratko Mladic nasce all'inizio della Seconda guerra mondiale (1941) da una famiglia serba dell'Erzegovina, dove la maggioranza della popolazione è croata. Suo padre, partigiano comunista, viene ucciso dagli ustascia croati alleati dei nazisti. Più tardi, sua figlia, a Belgrado, si fidanza con un musulmano e si suicida, pare per l'opposizione del padre al matrimonio. Secondo una tesi mai accertata, per la vergogna dopo Srebrenica. «La differenza fra serbi e croati? Siamo la stessa merda calpestata dal carro della Storia», è l'immagine di uno scrittore.
L'album di famiglia non spiega da solo convinzioni e adesione entusiastica al disegno dei suoi referenti politici. Il militare tutto di un pezzo avrebbe potuto prendere strade diverse, scegliere quella del cuore e della ragione, come fece il suo collega di corso, il generale serbo Divjak, che decise di difendere Sarajevo. A Srebrenica, Mladic si trovò di fronte un valoroso combattente bosniaco, Naser Horic, finito anche lui all'Aja per crimini commessi ai danni dei serbi prima dell'assedio finale. Naser Horic, musulmano, al tempo della federazione jugoslava, lavorava a Belgrado, come guardia del corpo di Milosevic.
La strada della verità sul grande massacro non porta dunque soltanto a Mladic. Ci furono precedenti stragi a danno dei serbi, l'indifferenza internazionale, l'imbelle difesa del battaglione dei caschi blu olandesi che avrebbero dovuto «tenere» l'enclave o almeno ottenere l'aiuto di truppe internazionali, l'abbandono da parte del comando centrale musulmano. Prima del massacro, Mladic ha di fronte un parigrado: il generale dei caschi blu francesi, Morrillon. Pagine ancora da scrivere, con un'unica certezza: dopo quella strage, la divisione etnica della Bosnia era compiuta e fu più facile raggiungere la pace. Sulla facciata di una fabbrica in disuso, una scritta è sopravvissuta per anni all'ex Jugoslavia: «Se necessario, saremo tutti uniti».
Massimo Nava
22 febbraio 2006
--------------------------------------------------------------------
per chi volesse approfondire consiglio la lettura di "Maschere per un massacro" bel libro-reportage di Paolo Rumiz....
http://www.unilibro.it/find_buy/product.asp?sku=498882